Un piccolo gabinetto vergognoso

    Oggi, 14 novembre, fu pubblicato nel 1913 il primo dei volumi della Recherche dal titolo Dalla parte di Swann.

    Con Proust è da tempo che ho ingaggiato un silenzioso corpo a corpo. Mi sono dato alla lettura dei suoi volumi, ho finito i primi due e sono alle prese col terzo, I guermantes.

    Leggere Proust è una sfida che l’autore lancia ai suoi lettori. Perché leggere un numero infinito di pagine in cui sono descritti dettagli oziosissimi di interni o paesaggi, rarissimi dialoghi e personaggi al limite dell’antipatico (a partire dal protagonista, un ricco nullafacente dedito alle lunghe passeggiate e alla frequentazione di salotti altolocati)?

    Eppure in ogni pagina c’è un lampo, una specie di baluginio che sembra alludere a qualcosa di nascosto, una ricompensa per chi avrà la forza di continuare, di non fermarsi alla superficie di una narrazione a dir poco prolissa.

    Nelle pagine spesso si trovano descrizioni di architetture, di città o di singoli ambienti. Qualsiasi spazio attraversato o solo osservato dal protagonista si anima di nuovi significati.

    Per ricordare questa giornata di 100 anni fa, riporto questo breve brano contenuto ne I Guermantes, una descrizione dell’albergo in cui il protagonista si trova a passare una prima notte. Agli occhi del narratore le stanze prendono vita, salire i gradini di una scala diventa un atto quasi erotico e un gabinetto si nasconde come un bambino che gioca a nascondino.

    Il fatto è che dell’antico palazzo restava un sovrappiù di lusso, inutilizzabile in un albergo moderno, e che, privo di qualsiasi destinazione pratica, aveva assunto in quella disoccupazione una specie di vita: corridoi che tornavano sui loro passi, di cui ad ogni momento si incrociavano gli andirivieni senza scopo, vestiboli lunghi come corridoi e adorni come salotti, che avevano l’aria di essere alloggiati là piuttosto che di far parte dell’alloggio, che non si era riusciti a incorporare in alcun appartamento, ma che si aggiravano nei paraggi del mio e vennero subito ad offrirmi la loro compagnia — sorta di vicini oziosi ma non rumorosi, di fantasmi subalterni del passato cui fosse stato concesso di restare in silenzio davanti alla porta delle stanze occupate dai clienti, e che, ogni qual volta mi ci imbattevo, mi usavano una silenziosa premura. Insomma, l’idea d’un alloggio, semplice contenitore della nostra esistenza attuale e che si limiti a preservarci dal freddo, dalla vista altrui, era assolutamente inapplicabile a quella dimora, insieme di stanze reali quanto una colonia di persone, d’una vita certo silenziosa ma che si era obbligati a incontrare, evitare, accogliere, allorché si rientrava. Si cercava di non disturbare e non si poteva guardare senza rispetto il grande salone che aveva preso, fin dal XVIII secolo, l’abitudine di sdraiarsi tra le sue colonnine d’oro vecchio, sotto le nubi del suo soffitto dipinto. E si provava una curiosità più familiare per le stanzette che, senza alcuna preoccupazione di simmetria, correvano attorno a lui, innumerevoli, sorprese, fuggendo in disordine fino al giardino dove scendevano tanto facilmente per mezzo di tre gradini sbrecciati.

    Se volevo uscire o rientrare senza prendere l’ascensore né esser visto nella scala principale, una più piccola, privata e in disuso, mi offriva i suoi gradini disposti con tale maestria uno sopra l’altro, che nella loro gradazione sembrava esistere una proporzione perfetta, sul genere di quelle che nei colori, nei profumi, nei sapori, suscitano spesso in noi una sensualità tutta particolare. Ma quella che si prova salendo e scendendo, mi era stato necessario venire fin qui per conoscerla, come un tempo in quella località alpina per sapere che l’atto, abitualmente non percepito, di respirare, può rivelarsi una costante voluttà. Quando posai i piedi per la prima volta su quei gradini, familiari prima ancora d’esser conosciuti, ne ricevetti quel risparmio di sforzo che ci concedono solo le cose di cui abbiamo lunga consuetudine, come se essi possedessero, depositata, forse incorporata in loro dai padroni di un tempo che ogni giorno accoglievano, la dolcezza anticipata di abitudini che non avevo ancora acquisito e che anzi avrebbero potuto solo indebolirsi qualora fossero divenute mie. Aprii una stanza, la doppia porta si richiuse dietro di me, le tende fecero entrare un silenzio sul quale mi sentii come una sorta di inebriante regalità; un camino di marmo decorato di rami cesellati, che a torto si sarebbe creduto saper rappresentare solo l’arte del Direttorio, mi offriva del fuoco, e una bassa poltroncina mi aiutò a scaldarmi così confortevolmente come mi fossi seduto sul tappeto. Le pareti serravano la stanza, la separavano dal resto del mondo e, per lasciarvi entrare e racchiudervi ciò che la arredava, si scostavano davanti alla biblioteca, riservavano una rientranza per il letto ai cui lati due colonne sostenevano lievemente il soffitto sopraelevato dell’alcova. E la stanza era prolungata nel senso della profondità da due salotti larghi quanto essa, di cui l’ultimo aveva, sospeso alla parete, per profumare il raccoglimento che vi si veniva a cercare, un voluttuoso rosario di semi di iris; le porte, se le lasciavo aperte mentre mi ritiravo in quell’ultimo recesso, non si accontentavano di triplicarlo, senza che esso cessasse d’essere armonioso, né si limitavano a far assaporare al mio sguardo il piacere dell’estensione dopo quello della concentrazione, ma al piacere della mia solitudine, che restava inviolabile pur cessando di essere imprigionata, aggiungevano anche il sentimento della libertà. Quello stambugio dava su una corte, bella solitaria che fui felice di avere per vicina quando, il mattino seguente, la scoprii, prigioniera tra le sue alte mura dove non si affacciava una sola finestra, e con due soli alberi ingialliti che bastavano a dare una dolcezza di malva al cielo puro.

    Prima di andare a letto volli uscire dalla mia stanza per esplorare tutto il mio fatato dominio. Camminai seguendo una lunga galleria che in successione mi fece omaggio di tutto ciò che essa aveva da offrirmi se non avessi avuto sonno, una poltrona riposta in un angolo, una spinetta, su una mensola un vaso di maiolica blu pieno di cinerarie, e in una cornice antica il fantasma di una dama d’altri tempi coi capelli incipriati disseminati di fiori azzurri, e con un mazzo di garofani in mano. Arrivato in fondo, la sua parete piena dove non s’apriva nessuna porta mi disse ingenuamente: «Ora bisogna tornare indietro, ma come vedi sei a casa tua», mentre il soffice tappeto aggiungeva, per non esser da meno, che se non avessi dormito, quella notte sarei benissimo potuto venire là a piedi nudi, e le finestre senza imposte che guardavano sulla campagna mi assicuravano che avrebbero passato la notte in bianco e che tornando là a qualsiasi ora non dovevo temere di svegliare nessuno. E dietro una tenda scoprii, solo, un piccolo gabinetto che, fermato dalla parete e non potendo mettersi in salvo, si era nascosto là, tutto vergognoso, e mi guardava spaventato col suo finestrino a occhio di bue azzurrato dal chiaro di luna.

    Marcel Proust, I guermantes, Newton, 1990, pp. 57-58.


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