Spigolature di Piano

    Sempre spinti dall’onda delle parole pronunciate da Renzo Piano a Vieni via con me, vale la pena di rileggere alcune sue frasi contenute in una sua intervista a Stefano Boeri del 2009.

    C’è chi progetta proponendosi subito di realizzare qualcosa di eccezionale e poi torna indietro verso i requisiti funzionali e costruttivi e chi invece, come me, comincia dal costruire e cerca gradualmente di avvicinarsi alla straordinarietà… In realtà l’architettura è davvero tale solo quando questi due mondi – la risposta ai bisogni e la risposta ai sogni – riescono a coincidere in un solo oggetto: ecco allora che assisti a un miracolo.

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    Ci sono architetti – come il mio amico Frank Gehry – che sanno inventare forme straordinarie e solo successivamente
    si preoccupano di renderle costruibili… E lui ci riesce davvero, perché i suoi sono edifici che funzionano, non sono affatto solo delle sculture. Bene: mentre Frank inizialmente privilegia l’immagine mentale, io faccio l’opposto. Anche perché io non sono capace di immaginarmi una cosa senza pensare a come costruirla. Frank, invece, comincia sempre con una visione. Come anche Jean Nouvel, che si stende sul letto e comincia a elucubrare. Ciascuno ha il suo metodo. Io sostanzialmente inizio con le dita della mano, il che forse giustifica la semplicità di certe mie scelte. Ma quello che conta è che a un certo punto, qualunque sia la strada, si arrivi a realizzare un connubio tra queste due dimensioni dell’architettura, quella costruttiva e quella visionaria.

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    In effetti, anche Calvino aveva il terrore del disordine. Girava sempre con dei foglietti in tasca e scriveva appunti che erano geroglifici. Ma attenzione: Calvino agganciava costantemente il reale. Questa ossessione del prendere appunti, del “rubare dal quotidiano” è piuttosto un comportamento comune a tutti quelli che non hanno mai creduto all’impulso creativo selvaggio… E, da buon genovese del segno della Vergine, è una cosa che ti resta dentro tutta la vita…

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    Non è un caso che io mi sia laureato con Giuseppe Ciribini, al Politecnico di Milano, in “Modulazione e coordinamento modulare”, un tema se vuoi noiosissimo, quasi una sorta di autoflagellazione. Ma nel frattempo andavo più o meno di nascosto – erano anni in cui sembrava più importante occuparsi esclusivamente di temi sociali e politici – a lavorare da Franco Albini, dove imparavo a fare “pezzi” costruttivi. Eppure, anche alla base di questa logica compositiva per “pezzi”, che avevo ereditato dalla passione per il mestiere del costruire, c’era un impegno etico profondo, legato a valorizzare il mondo produttivo, industriale, l’utilità sociale del nostro mestiere in un momento in cui le tecniche costruttive erano guardate con supponenza o sospetto…

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    Ho una regola, a cui non ho ancora mai disobbedito, che prevede che non si debba cominciare a lavorare senza essere stati sul posto dove dovrai sviluppare un progetto. Il luogo “parla”, ti guida, ti regala spunti. Se infatti da un lato hai una specie di costruzione mentale implicita, che con gli anni si affina e che ti porta a immaginare un sito anche senza esserci andato (come Maurizio Pollini, che ormai spesso non legge più la musica che suona), dall’altro resta importantissimo quello che vedi in un luogo. Il luogo ti salva. Se lo ascolti bene, è improbabile che prevalga il preconcetto; perché osservare attentamente un luogo è anche una specie di antidoto contro la ripetizione e la replica delle tue ossessioni.

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    (…) a Londra – insegnando tre giorni a settimana all’Architectural Association School e gli altri due giorni alla Polytechnic of Central London – avevo trovato il modo di pagare l’affitto di una bella casa ad Hampstead, dove vivevamo con due ragazzini che andavano all’asilo. Del resto, quando hai 15 anni e sei nato a Genova, vai avanti e indietro lungo la linea di costa e di continuo pensi: “Cosa ci sarà al di là di questo mare?”. Non c’è scampo: devi andare via, devi scappare da questa terra stretta tra mari e monti, per poi – come è successo a me – magari tornarci di tanto in tanto.

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    Fare architettura è un’avventura, un’arte corsara e di rapina, che sfugge all’omologazione e ti porta ad affrontare di continuo situazioni complicate e a cavartela; anche se devi attraversare il Far West e schivare le frecce degli indiani. È un mestiere nobile, complesso, in cui convergono dimensioni che hanno a che fare con l’arte, l’illusione, le forme, l’espressione; e tutte si coniugano con l’idea folle di cambiare il mondo, perché alla fine quello che noi facciamo resta e vive nel tempo; come le montagne, i fiumi, le foreste e, appunto, le città.

    Abitare 497 – Being Piano
    Un’intervista a Renzo Piano – RPBW Genova 28.09.2009
    Stefano Boeri con Anna Foppiano, Mario Piazza, Giovanna Silva

    via stefanoboeri.net


    32 thoughts on “Spigolature di Piano

    1. uau…bello come articolo anche se non ho capito che centravano i 2 bambini che andavano all’asilo…erano i figli o i coinquilini? ;)

    2. dici che da buon imprenditore illuminato faceva da baby sitter ai figli dei dipendenti??
      neanche adriano olivetti….

      1. io lo farei volentieri il babysitter (non so se i babies apprezzerebbero, tanto per capirci Marypoppins mi fa schifo come educatrice), di sicuro guadagnerei di più di adesso e mi divertirei anche. A proposito di Piano B, magari c’è già qualcuno che lo fa, sarebbe bello parlarne.

        1. rem, se ti interessa ho un lavoretto per il mese di dicembre: contatto con i bambini…MOLTI bambini,ambiente di lavoro allegro…c’è solo il semplice obbligo di indossare un simpatico vestitino&cappello rosso…PAGANO BENE!! :)

        2. Una mia amica e compagna di corso aveva un piano B già ai primi anni: mettere su un agriturismo dove fare la cuoca (cucina veramente bene).

          Adesso nel peggiore dei casi mira ai concorsi per l’ufficio tecnico… :(

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