L’architetto al cinema: È complicato

    Gli architetti continuano ad andare forte al cinema, anzi, sembrano essere, come categoria professionale maschile, quella che più attrae un pubblico femminile di mezza età (un ottimo motivo in più per scegliere di studiare architettura!).

    Il film in questione, visto ieri sera in tv, si intitola È complicato. In realtà non è molto complicato, nel senso che, riducendo all’essenziale, ci sono lui (un Alec Baldwin che dovrebbe diventare il protagonista di uno spot pubblicità-progresso sugli effetti di un’errata alimentazione a base di carni rosse e superalcolici, in pratica la faccia inespressiva di un cinghiale in calore) e lei (Meryl Streep, ancora sotto la sindrome “Mamma mia” e, quindi, che  ride istericamente tutto il tempo, mostra porzioni limitatissime di carne rosa – non sia mai le si veda il culone e l’interno coscia cascante – esprime tutta la gamma di sentimenti associabili al mangiare una fetta di torta al cioccolato e poi li replica indefessamente alla minima occasione plausibile o no). Sono divorziati da oltre dieci anni ma si riavvicinano, complice il sesso post andro-menopausa, abbondante alcool (non sia mai che due adulti consenzienti facciano sesso deliberatamente) e più tempo a disposizione. La cosa crea qualche dubbio a lei (ovviamente a lui no) perché divisa tra il giudizio dei figli (tre avatar bellissimi, biondissimi e anoressici) e un possibile nuovo amichetto, che poi è l’architetto del film (Steve Martin che rassomiglia a un wurstel con la salsa al cren sopra, un paio di interventi di blefaroplastica e lucidalabbra a go-go).

    Il film è veramente imbarazzante, come potrebbe essere sentire i propri genitori parlare di sesso o, peggio, come vederli ballare a un matrimonio.

    Capisco che con l’allungarsi della vita il tema del sesso tra anziani sia sempre più d’attualità però imbastirci tutta una commedia sopra è raccapricciante. Cioè, o è Poetry, e siamo alla nella categoria “opera d’arte”, o è “Villa Arzilla” e la categoria è “facciamoci subito qualcosa prima che vada a male”. La Meyers, regista da denunciare all’Interpol, orami ha trovato il suo filone d’oro e continua a sfornare film per signore sessantenni annoiate, bulimiche, ricche e bianche. La cosa che più infastidisce del film, infatti, è l’assoluta finzione di tutto il contesto sociale, economico e, ammettiamolo, architettonico.

    Mi spiego: la macchina più economica che si vede è una Porche, la casa di lei è una tenuta di ettari di prati verdi ed alberi d’ulivo. L’orto dietro casa non è un vascone in cui cresce dello striminzito prezzemolo ma il giardino dell’eden dove tutti i frutti sono rigogliosi e maturi. La casa è sempre perfetta e provvista di fiori freschi. Il forno sforna sempre qualcosa, che sia un enorme pollo arrosto o un Croque monsieur preparato di notte o tre torte diverse per il tè con le amiche. In tutto questo tripudio di grassi e carboidrati nessuno è obeso (ok, Baldwin sì, sembra in cinta, ma è più l’effetto della birra che dei carboidrati), in casa non c’è uno straccio di colf, non c’è una persona nera in tutto il film, gli unici appartenenti a minoranze etniche sono due latino-americani un po’ tonti impiegati nella cucina del panificio di lei.

    Più che una commedia sembra il sogno nazista di una fraulein ariana in cui il caos e l’abisso interiore è compensato da un ambiente di vita governato da un dittatore dell’interior design. Il che mi fa pensare che tutta questa passione americana per Martha Stewart e il suo dilagante arredamento affettato e minimale siano una coperta sottilissima posta sopra un mix pericolosissimo di squilibri affettivi, comportamenti psicotici e deliri neonazisti.

    Tornando all’oggetto principale del nostro interesse, la nostra signora criptobulimica e criponazista incontra il suo architetto in quanto decide di “ampliare” il suo misero rifugio e poter avere finalmente una cucina come si deve. Lui è la persona perfetta, colui che è in grado di dar forma ai suoi sogni (e alle 47 mail dettagliatissime che lei gli ha scritto). Forse il ruolo dell’architetto è quello più interessante: vittima di una committente psicotica, va agli appuntamenti di lavoro a cui lei puntualmente si dimentica di andare e non si arrabbia pur di avere la parcella (e il cuore di lei, ma questo è quello che vuol farci credere la regista, noi sappiamo che è solo la parcella), va in giro con dei miseri fogli arrotolati con le piante di progetto che lei finge di capire chiedendo poi di spostare pareti di un paio di metri “per avere più luce”. Nel vano tentativo di far comprendere l’esatta dimensione e distribuzione degli ambienti, lui addirittura delimita a terra l’ingombro delle pareti con paletti e nastro rosso e, sottigliezza, utilizza del nastro blu per le porte e due scale per far vedere il panorama dal piano superiore. L’espediente è interessante (mai come i modelli in scala 1:1 voluti dagli eccentrici coniugi Kröller-Müller per scegliere la giusta posizione per il loro museo) ma controproducente perché, come sa chi l’ha vista, l’impronta a terra di un edificio sembra piccolissima in confronto allo stesso volume percepito dall’interno.

    Per chiudere, la figura dell’architetto mi è sembrata umana nella sua debolezza di professionista e uomo un po’ sfigato. Ci sono una paio di battute godibili nel film, una non la posso raccontare ma sappiate solo che ha che fare con un farmaco per la prostata e i suoi effetti sulla produzione di seme, l’altra la dice il Baldwin-cinghiale quando, dopo una notte di sesso sfrenato, si ritrova a fianco della ex-moglie e con la mano dà un paio di rapidi buffetti sulla di lei topina (come quando si fa pat pat sulla testa di un cane fedele) e dice: “Casa dolce casa”.

     


    32 thoughts on “L’architetto al cinema: È complicato

    1. Il signor Baldwin è in cinta nel senso che ormai ha le sembianze di un maiale toscano?
      A perte ciò, che dire del brivido trasgressivo dello spinello? Mah, l’ho visto anch’io, il film, non lo spinello, ma ero talmente preso dalla storia che mi sono addormentato prima della fine;

      1. è stata dura, anzi, durissima, arrivare alla fine del film, non finiva più e senza uno scopo, cioè la prima parte fa da scintilla ma il fuoco era di paglia e il resto sono solo ceneri tiepide.
        Mi sarebbe piaciuto addormentarmi, avrei sofferto di meno.
        (la parte dello spinello è senza senso, però vuoi mettere in una catechista sessantenne che brividi anche solo immaginarlo…)

    2. Avrete sicuramente notato che l’architetto è vestito di scuro;
      tra l’altro mi è sfuggito il significato della videochat (a schermo intero e senza immagini sgranate, segno che i notebook -gentilmente paraculati dalla casa di Cupertino- montavano una webcam da 12 tirillioni di pixel)
      E mi sfugge anche il perchè il Signor [pig] Baldwin, si denuda, si accomoda sul letto e poi -genialata!- nasconde le pudenda con il notebook senza accorgersi che è acceso ed è in corso una videochat.
      Non è che la sceneggiatura è opera di qualcuno di Zelig?

      1. l’architetto è sempre vestito di nero e blu (praticamente un prete) e quando finalmente ha un appuntamento con la tipa si mette giacca, camicia e maglietta bianca della salute che sporge dal colletto… eccitantissimo nonché chic.
        quella del badwin nudo è puro distillato di idiozia: perché allora non abbassa lo schermo? e poi il sederotto che si vede per un nanosecondo per me non è il suo ma di una controfigura, troppo glabro per gli standard balldiwiniani.
        Com’è che siamo arrivati a parlare delle chiappe di Alec Baldwin?

          1. lo potremmo proporre a Greenway.
            In compenso c’è The Garkin (il cetriolo) di Norman Foster, va bene lo stesso?

    3. che dire, il film, vista la neve siberiana fuori dalla porta, l’abbiamo visto anche io e tadaa e sinceramente, con un po’ di ‘brain-off’, qualche risata c’è uscita, anche se con non poche riserve alcune delle quali già snocciolate dal sagace rem.
      Altre, più specifiche, le sintetizzo.
      1. ma quale architetto titolare di uno studio di progettazione con una sede da 1200 mq e 40 dipendenti si preoccupa direttamente di (cito dalla trama del digitale terrestre) “rifare la cucina” alla signora?
      2. ma quale cantiere richiede un briefing sul posto di 8-10 tra progettisti tecnici e operai prima di disporre il primo picchetto sul posto (se non the garkin by sir Norma Foster?);
      3. ma come si fa a cominciare il cantiere con quel tempo orribile nella scena di fine film, manco fosse la stazione Tiburtina?
      4. ma come mai Steve Martin è almeno alla seconda interpretazione di un architetto?
      5. ma, soprattutto, ho scoperto che da anni mangio Croque Monsier e che mia nonna buonanima lo chiamava “pane rinfornato”… e sono sicuro che il sapore sarà pure migliore!!!
      In generale si, le ingenuità e i cliche fioccavano a ogn inquadratura, ma in fondo è una commedia americana… e se uno va a cena al McDonald non può mica lamentarsi del servizio…

      PS: stasera ho preparato, inconsapevolmente, dei Croque Monsier… erano buoni…

      1. dimenticavo… l’espediente della scala l’avevo già precorso in quanto proposto a un cliente che aveva comprato un terreno, secondo lui vista mare, completamente circondato da edifici a 2-3 piani… per convincerlo che non era scontato gli ho proposto una variante tecnologica: affittare un cestello elevatore per capire cosa si vedeva dal terrazzo al secondo piano…
        evito l’epilogo…

        1. anch’io avevo notato lo studio (open space, arredi vintage, biciclette appese nel corridoio e nemmeno un computer sui tavoli?!?!?!) però ho pensato che il nostro architetto magari è uno degli associati, oppure è specializzato in progettazione di cucine di divorziate, in ogni studio dovrebbe esserci un esperto in cucine di divorziate, mi sembra un settore promettente.

    4. neanche il mereghetti sarebbe stato capace di una tale lucidità, di una tale profondità di analisi. hai pure notato l’anomala liscezza delle chiappe degli attori… a parte le natiche fa piacere notare come la nostra professione viva ancora di cliché. noi siamo dei cliché viventi. e in fondo la cosa ci rassicura.

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