Prendere le distanze

    Julien Fernandez è un vero nomade creativo, questa tanto decantata genia di professionisti apolidi e migranti che si spostano per tutto il globo a caccia di opportunità, lavori, incontri, eventi. In questo lo aiuta certamente il campo in cui opera a più livelli, la musica. Come musicista, produttore e promoter conosce ogni sfaccettatura del mondo musicale e il fatto di parlare tre lingue correntemente gli permette di sentirsi a casa praticamente ovunque. Ogni volta che abbiamo cercato di fissare una data per incontrarlo era o in Francia, in particolare a Lione dove sta organizzando il primo festival della sua etichetta, la AfricanTape, o in Svizzera, o in Belgio o a fare un tour negli Stati Uniti. Quando ci ha detto che era a casa a Pescara ci siamo subito fiondati da lui.
    La cosa strana è che, nonostante lo conoscessimo già da un po’ di tempo, non ci era mai capitato di parlare con calma del suo lavoro, che poi coincide al 90% con la sua vita. L’immagine che avevo di lui era sempre legata a quella di musicista: un indemoniato batterista più preciso di un metronomo, un’energia incredibile ed elettrica che arriva come un pugno nello stomaco di chi ascolta. Attraverso le sue parole scopriamo un’insospettabile attitudine zen al distacco e all’osservazione, una capacità di concentrazione assoluta che, se ci fate caso, traspare in ogni sguardo catturato dalle foto.

    Finora abbiamo parlato di creatività declinandola in un ambito legato all’artigianato, al food design e alla ceramica, con te entriamo in un territorio nuovo per noi, quello musicale. In un cento senso, ho l’impressione che anche quello del musicista sia un lavoro artigianale, fatto di passione ma anche di aspetti più prosaici, pratici, in poche parole, commerciali.

    J. – Io non credo di essere più un musicista, o lo sono ma in modo molto amateur, amatoriale. Diciamo che la pratica di suonare per me è diventata un hobby. Prima era una cosa importante perché aveva un sacco di spazio nella mia vita ma, in realtà, non ho mai voluto vivere della mia musica. Adesso quello che faccio è diverso. Il mio lavoro, la mia vera passione, è quello di pubblicare dischi. Sono sempre nel settore della musica, però ho cambiato lato: da musicista sono passato a produttore, cosa che a me piace di più in realtà. La pratica della musica è una cosa un po’ così… è come andare in palestra.

    Però non l’hai abbandonata…

    J. – No, la faccio sempre, la prossima settimana parto per il Belgio, vado a fare un concerto. Lo faccio quando ho tempo. Mi piace sempre tantissimo andare a suonare, anzi mi piace anche di più adesso che lo faccio a momenti quasi in modo eccezionale.

    Il tuo lavoro è un altro e fare musica è quello che fai per divertirti?

    J. – Tu prima parlavi di rapporto passionale con il lavoro, del lavoro che diventa parte della vita e io sono al cento per cento in questa cosa. Tutta la mia vita è centrata sul lavoro: come produzione, ma anche come ufficio stampa per altre etichette, ho un’agenzia di promozione europea. Mi sento fortunatissimo perché faccio esattamente quello che voglio.

    Quando hai deciso che sarebbe stato questo il tuo lavoro, in altre parole che la musica sarebbe stata il centro di tutto?

    J. – È successo per necessità, poco tempo fa. Mi ricordo che quando ero piccolo volevo fare l’avvocato… Poi, però, mi sono lasciato prendere da queste cose, non ho mai deciso veramente quello che volevo fare. Ho sempre pensato che le cose capitano per caso, a volte per necessità, molto per fortuna. Qualche anno fa, quando sono arrivato in Italia, ho iniziato a cercare un lavoro. È stato molto difficile perché non parlavo abbastanza bene la lingua e mi proponevano cose con stipendi molto bassi. A un certo punto ho guardato nel mio computer e mi sono detto: “Julien, conosci tanta gente nel mondo della musica, perché non metti a posto i tuoi contatti e inizi a fare qualcosa?” e ho iniziato così. Però, la necessità era veramente quella di lavorare e non avevo un progetto preciso.

    Più esattamente, ci dici di cosa ti occupi?

    Il mio lavoro principale è quello dell’agenzia di ufficio stampa, la Five Roses Press. Lavoro per delle etichette straniere, a volte italiane, e faccio ufficio stampa a livello europeo. Da poco lo faccio anche in America, dove ho aperto un ufficio a New York. Sostanzialmente aiuto le etichette ad avere visibilità. A parte questo, ho un’etichetta che ho creato tre anni fa. Facendo questo lavoro di ufficio stampa ricevevo tantissimi dischi, anche di artisti che non avevano etichetta e che consideravo veramente bravi. Allora mi sono chiesto: perché non provare a fare un’etichetta? È successo così, non l’ho deciso, è arrivato per caso. Ho sempre avuto la passione per i dischi, per la pubblicazione, però non ho mai realmente pianificato di farlo.

    E in più suoni. Con quali gruppi?

    J. – Il gruppo con cui ho suonato di più è Chevreuil. Siamo in due. Da poco ho un altro gruppo che si chiama Passe Montagne, però suoniamo veramente pochissimo.

    Ti occupi anche della grafica?

    J. – Mi occupavo molto di grafica ed è stato veramente utile. Ho imparato molto, ma non tanto dal punto di vista tecnico quanto nel come fare le cose. Io prendo sempre un esempio che mi sembra importantissimo: quando fai una cosa di grafica per la stampa devi sempre pensare alla zona di taglio, anche se è una zona che non vede nessuno. Quando sei grafico questa zona è importantissima, anzi, ha quasi più importanza del prodotto finito.

    Quello che non si vede è più importante di quello che si vede?

    J. – Sì, nella concezione dell’elemento, che sia un poster o un magazine, diventa una cosa centrale, ti aiuta a comporre. Credo che per il lavoro di pubblicazione di un disco sia la stessa cosa. La gente riceve un disco finito ma attorno a tutto questo ci sono cose che non si vedono e che, però, hanno un’importanza fondamentale. Il lavoro di grafica mi ha insegnato un po’ a capire l’importanza di… la parola che mi viene in mente è “anticipare” , bisogna sempre sapere anticipare le cose e considerare tutto quello che ruota intorno al disco. Questo vuol dire prendersi cura del rapporto con le persone con cui lavoro, avere un buon rapporto con i musicisti, con le persone che registrano, i gruppi, con le aziende con cui sono in contatto per far stampare. Tutto ha la sua importanza e, stranamente, penso che questa attenzione l’ho imparata facendo grafica. Oggi, il lavoro di grafica lo delego sempre più spesso agli altri, perché non ho più tempo.

    Che tipo di formazione hai avuto e pensi sia stata utile?

    J. – Ho fatto le belle arti e sì, mi è stato utile. Questa è una cosa divertente: ho fatto le belle arti solo perché sono stato preso al concorso, non sapevo che cos’era. Un professore mi aveva consigliato di provare a fare il concorso, ho tentato e sono stato preso. Quando ho avuto il Bac potevo scegliere se andare lì o andare in un’università qualsiasi. E mi sono detto: Julien, sei stato preso, vuol dire che forse la cosa che devi fare è quella. Sono andato e ho scoperto tante cose ma ciò cui tengo di più, la cosa più importante che ho imparato, è stata il prendere le distanze.

    Cosa intendi?

    J. – Ricordo un professore che un giorno ha fatto una cosa incredibile. Era professore di pittura, però faceva un po’ di tutto, era veramente speciale. Durante il primo anno, eravamo tutti davanti al nostro quadro e, a un certo punto, è venuto dietro, mi ha preso per il collo, e mi ha trascinato un paio di metri per terra. Mi ha detto: “Cazzo, Julien, la distanza si prende così!” Lo ha fatto davanti agli altri allievi, sono rimasti tutti scioccati.

    Perché lo ha fatto?

    J. – Ho sempre avuto un ottimo rapporto con questo professore, forse pensava che avessi delle possibilità per fare delle cose ma che non lo sapevo. Era il suo modo di insegnare, molto fisico…

    Ma, ti ha fatto male?

    J. – No, no, è stata più la sorpresa… e in più era bassissimo, è stato buffo…

    Quando dici “prendere la distanza” intendi il fatto di porsi al di fuori da quello che stai dipingendo?

    J. – È questo, perché finché sei “dentro” non vedi. Per lui questa distanza era la cosa più importante per capire il mondo, è questo il suo insegnamento.

    Questo insegnamento lo applichi anche alla musica?

    J. – A tutto, alle cose di tutti i giorni, anche al rapporto che ho con gli altri.

    Mi è capitato di vederti suonare e, però, mi sei sembrato totalmente “dentro”.

    J. – Sono dentro la musica ma, allo stesso tempo, sono distaccato. Con Chevreuil, in genere, è tutto molto strutturato ma ci sono anche momenti di improvvisazione e allora devo riflettere su quello che devo fare. Chevreuil è particolare perché suono con dei loop e devo sempre stare attento a cosa avviene intorno. Anche quando improvviso devo prendere la distanza, perché se ascolto troppo un amplificatore, e non un altro, rischio di perdermi. È divertente che parliamo di questa cosa perché Chevreuil è un gruppo quadrifonico che su disco diventa stereofonico. Abbiamo cercato un modo per far sentire la gente all’interno della nostra musica e l’unico sistema che ci è venuto in mente è stato di fare un doppio vinile: un vinile riprende due amplificatori e una parte della batteria, mentre l’altro registra la batteria e gli altri due amplificatori. In questa maniera si riproduce il modo in cui realmente suoniamo nello spazio. Questo, però, implica che le persone debbano avere due sistemi di ascolto, oppure, devono invitare un altro amico che porti il suo stereo. La cosa mi piace perché costringe a condividere l’ascolto della musica.

    Delle cose che stai facendo in questo momento, o che hai fatto in passato, qual è quella a cui tieni di più?

    J. – Adesso mi rendo conto che è l’etichetta la cosa a cui tengo di più, perché mette in relazione tante persone e io sono il punto di riferimento. È la cosa più importante perché sento di avere una grande responsabilità.

    Il fatto di essere un musicista influenza il modo in cui gestisci la tua etichetta?

    J. – Credo che la differenza maggiore sia nel fatto che conosco di persona i miei contatti. Tutte le persone con cui lavoro mi conoscono come musicista, sanno chi sono e questo rende tutto più facile. Per il resto, sono molto impulsivo, quando faccio una scelta su un disco non ci rifletto per giorni. Se ascolto una cosa che mi piace da morire, la faccio e basta. Per farti capire: ho ricevuto un disco da un gruppo sconosciuto e appena l’ho sentito ho pensato che era fantastico. Li ho immediatamente chiamati, nel giro di tre giorni ero da loro per conoscerli e ora sta per uscire un loro disco per la mia etichetta.

    Qual è stato il primo lavoro “pagato”?

    J. – Il primo lavoro è stato come ufficio stampa. All’inizio lo facevo per gli amici e prendevo veramente pochissimo, ma l’idea era di rendermi visibile, di farmi conoscere. Probabilmente il primo lavoro è stato per un’etichetta della Repubblica Ceca che si chiama Minority Record, il disco era un 45 giri di Gastr del Sol.

    Quando cerchi ispirazione cosa fai?

    J. – Non ho il tempo di cercare, mi viene o non mi viene. A volte devo prendermi apposta del tempo per pensare. Di solito mi capita quando devo fare la grafica per il mio sito.

    Hai un sito preferito?

    J. – Il blog di un mio amico che scrive di musica, Nextclues.com. Mi piace perché ha un modo di scrivere molto virulento, molto, molto critico.

    Una rivista musicale?

    J. – Sono tutte noiose. In Italia penso che tutto sia molto noioso, perché le riviste, lo so bene adesso, funzionano con il business. Alcune sono interessanti da leggere, però girano sempre intorno agli stessi artisti. Ce n’è una francese che si chiama Noise che è interessante perché parla di ogni genere di musica e, graficamente, è anche carina. Parlano anche molto della mia etichetta, però lo fanno spontaneamente, non sono io a chiederglielo. C’è anche questa rivista in Inghilterra che si chiama Wire, che è un punto di riferimento, però a me non piace.

    Per quanto riguarda la musica, le fanzine funzionano?

    Io do molta importanza alle fanzine sul web, perché scoprono le cose prima. In Italia c’è Comunicazione interna, è piccola ma interessante. Credo che, spessissimo, i piccoli gruppi siano remarchè, notati, più facilmente da riviste altrettanto piccole. Le grandi riviste non scoprono niente, iniziano a vedere qualcosa quando già è successo tutto, arrivano tardi. Nello stesso tempo, però, i grandi magazine continuano ad essere un riferimento per la gente.

    Questo, però, sta cambiano perché i grossi gruppi hanno sempre meno potere in quanto la gente arriva direttamente alle informazioni tramite il passaparola sulla rete.

    J. – È vero, la gente conosce più cose, ha accesso a più scelta. Tuttavia, la cosa più importante rimane la curiosità e la gente, nell’80% dei casi, non è curiosa.

    Ci consigli un libro?

    J. – Il mio libro preferito è Les sables de la mer di Jonh Cowper Powys.

    Un film?

    J. – Ce ne sono tanti: Stalker, Pickpocket… Ultimamente mi è piaciuta una commedia francese degli anni ’80 che si chiama Mes meilleurs copains.

    Hai un programma televisivo preferito?

    J. – Ho comprato la tv qualche settimana fa e non la guardo mai, la guarda mio figlio… Praticamente da tre anni il mio unico programma è Barbapapà. In Francia guardo Arté. C’era una trasmissione che seguivo e che si chiamava Strip tease. I giornalisti vivevano con delle famiglie “normali” con situazioni assurde. Mi ricordo di una signora che amava talmente il suo cane che, dopo la sua morte, lo aveva fatto impagliare e ci viveva insieme giorno e notte! Hanno fatto anche reportage con dei neonazisti, roba molto forte… Lo stile ricordava quello dei film di Lars von Trier, Idiots in particolare, tutto girato con la telecamera a spalla, tutto un po’ mosso. Un tipo che conosco mi ha detto che un giorno ha dato un passaggio in macchina a uno dei giornalisti della trasmissione e questo gli ha raccontato che avevano pensato di ricontattare, dopo dieci anni, i protagonisti delle vecchie puntate ma che solo uno aveva accettato di tornare in tv. Questo perché molte di queste persone erano rimaste profondamente ferite dal modo in cui erano state mostrate.

    Un gruppo e un disco?

    J. – Gruppo, Jesus Lizard. Disco, il primo 45 giri degli Shellac.

    Una città?

    J. – Les Sables d’Olonne, una città in cui ho vissuto diversi anni quando andavo al liceo. Se, invece, vogliamo fare i fighetti, San Francisco.

    Quali sono le qualità che servono per il tuo lavoro? Quali quelle che possiedi e quelle che vorresti?

    J. – Il distacco, il saper vedere in anticipo. Cosa mi manca? Avrei bisogno di un terzo braccio per fare i pacchi mentre leggo le mail. E poi, a volte, essere più simpatico.

    Cosa ti aspetti dal tuo futuro?

    J. – Vorrei continuare a fare sempre meglio ciò che faccio e, soprattutto, vorrei poter assumere delle persone. Ho imparato a fare molte cose contemporaneamente, come il computer sono diventato multitasking, ma non basta.

    Del tuo futuro cosa ti preoccupa?

    J. – Niente.

    Ci fai il nome di amici o colleghi che vorresti far conoscere?

    J. – Aris e Barbara, hanno un’etichetta anche loro, Fred D’Heroville e Emiliano Colantoni di The-Shift, lui è simpatico, fa video e rassomiglia a Bonnie Prince Billy.


    links: 

    LABEL : http://africantape.com/
    Africantape festival – LINE UP AND DETAILS : http://africantapefestival.com/
    UFFICIO STAMPA : http://fiverosespress.net/
    FREE SAMPLER : http://africantapegroup.bandcamp.com/album/africantape-festival-2011-free-sampler

    Le foto che seguono sono di Pippo Marino ad eccezione della prima di Julien con i biscotti Africantape di pocodesign


    134 thoughts on “Prendere le distanze

    1. uau…rem sono estasiato. Finalmente si parla di musica in maniera “architettonicamente” viscerale…e non da pseudorivista “addetta ai lavori”.
      Bisognerebbe creare una sezione apposita perchè il punto di vista di un architetto nei confronti della musica,oltre che personale, è davvero speciale.
      Sento di avere molte cose in comune con julien. Per fortuna lui è riuscito a fare delle sue passioni la sua professione (cosa che tutti, in fondo, aspirano). Io continuo a sognare :)…ma la cosa che non manca mai è l’attitudine,il metodo; dalle sue parole lo si legge chiaramente.
      Queste interviste fanno un pò il punto della situazione secondo me e, nell’ambito musicale, si delinea una situazione critica. La cosa confortante è che ci sono molti paesi che permettono di vivere dignitosamente di musica: tutti gli anelli della “catena” sono collegati e lavorano in sinergia…anche lontano dalle grandi etichette musicali. Magari un giorno, se lascerò l’italia, potrò portare questa mia passione ai livelli che sogno…intanto ti ringrazio rem per quest’altra perla :) ( oh…se mi dai un aggancio con julien…facciamo a metà eh!!ahahah ;) :) :) )

      1. certo…sei un giornalista mancato!! ahahahah apparte gli scherzi: centri sempre il punto, e fai domande efficaci e con quel pò di ironia che è 1 piacere leggere…

        Cmq, come dice julien, la figura del maestro è bellissima: ogni uomo dovrebbe avere la fortuna di trovare davanti a sè, durante la propria vita, i maestri giusti… ;)

    2. hey! bella quest’intervista … era tanto che non leggevo di musica … ormai su blow-up si parla solo di dischi che, come insegna Jul, sono una piccola parte del mondo che gira intorno al “concetto di musica”. Approvo e rilancio anche il concetto di “multitasking-distaccato”, cioè del fare tante cose contemporaneamente e guardarti da fuori mentre le fai … se sei bravo mentre ti guardi, da 2 metri di distanza, ne approfitti anche per prenderti un caffè.

    3. Bellissima intervista, anch’io concordo con Eviliano, dalle parole di Julien traspare un preciso metodo, una pratica di vita che non è assolutamente rigida pur rispondendo ad alcune semplici regole – il distacco, il saper guardare da fuori, la passione e la costanza.

      Insomma, sicuramente un esempio da seguire.

      Quanto a voi ragazzi, Rem e Massimiliano, state facendo un OTTIMO LAVORO: ve lo dico quasi tutti i giorni ma è doveroso ripeterlo.
      A quando il vostro piano B? :)

    4. cosa ti preoccupa del tuo futuro:niente.
      dovebbero diventare un mantra fina dall’asilo.
      quante volte l’ansia di… ci ruba il futuro.
      un bacio in fronte all’autore di tanta meravigliosa dichiarazione di incoscienza!

      1. è vero, a volte, anzi troppo spesso, ci lasciamo frenare da timori e paure infondate.
        Comunque, anche Silvia Settepanella (la seconda intervista) aveva risposto allo stesso modo. Non credo che nè nel caso di Julien, nè in quello di Silvia si tratti di incoscienza ma di sano e battagliero coraggio.

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