La marginalizzazione dell’architetto è un dato di fatto inoppugnabile, e non certo da adesso. Al suo progressivo innalzamento nella gerarchia sociale fino al (raro ma possibile) riconoscimento del ruolo di “genio-mago” delle costruzioni, corrisponde una sempre maggiore limitazione dell’estensione del suo potere. Oggi l’architetto al più è “utilizzato”, diventa una semplice “competenza” in un quadro più vasto di competenze, uno “specialista”. Tali sono Zaha Hadid, Daniel Libeskind e Arata Isozaki a CityLife, tale è stato Frank Gehry a Bilbao.
Nella sempre più frequente assimilazione a un artista, o a uno stilista, l’architetto perde la sua tradizionale capacità di prefigurare società, e mondi, oltreché edifici. Ma forse potrebbe essere anche l’esatto opposto: nella perdita della sua tradizionale capacità di prefigurare società, e mondi, limitandosi ai soli edifici, l’architetto finisce per assimilarsi a un artista, o a uno stilista.
La solitudine dell’architetto è un dato preoccupante, inquietante, su cui varrebbe la pena di riflettere. Ed è un segnale tutto sommato confortante che chi voglia tornare a occupare un ruolo centrale nella società, chi voglia cercare di esprimere pienamente il proprio sentire “pubblico”, decida di lasciare (almeno momentaneamente) la professione di architetto e provi a misurarsi con la politica.
Marco Biraghi, La solitudine dell’architetto, in Doppiozero, 2 dicembre 2011.
secondo me, più che con la politica, occorrerebbe misurarsi con la filosofia