Canguri vintage e foto di famiglia

    Ci dev’essere qualcosa negli attici che attira i fotografi come le margherite per le api. Come Sergio, anche Claudia Ferri abita in un micro superattico luminosissimo. Più che in un’abitazione sembra di entrare in un piccolo nido cresciuto sui tetti, uno scrigno caldo in cui Claudia raccoglie i suoi ricordi più preziosi: foto di famiglia, maschere di carnevale, piume colorate, mobili della nonna e ricordi di viaggi esotici.
    Ci accoglie con calore e semplicità, mentre racconta progetti e lavori, sorride spesso con un candore genuino. Tratti che scopriamo nascosti in ogni sua fotografia.

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    Due parole per presentare il tuo lavoro.
    Il mio approccio alla fotografia nasce come una necessità. Se avessi saputo scrivere avrei scritto, invece, scatto fotografie raccontando con le immagini, mi esprimo attraverso questo mezzo. Mi piacciono anche le contaminazioni video e le installazioni, ma sono ricerche a cui mi sto avvicinando da poco. Fino all’anno scorso lavoravo come assistente per una fotografa che opera nel campo dell’arte. La mia fotografia, per formazione ma anche per attitudine, si avvicina al campo della fotografia autoriale, al mondo delle gallerie.

    Insomma, non fai matrimoni?
    Certo che li faccio, come farei a campare sennò?
    Il lavoro più intimo, più mio, quello che mi fa muovere, è quello autoriale, ma, purtroppo, non è quello che mi fa guadagnare. Sono tornata a Pescara dopo aver vissuto dieci anni a Roma dove ho frequentato una scuola di fotografia, in cui ho anche lavorato per pagarmi gli studi. Ci sono rimasta un anno in più per fare un master in fotogiornalismo, perché ero convinta di fare fotoreportage. Poi, ho capito che la cosa non mi interessava e ho spostato il mio sguardo verso un linguaggio più artistico e personale.

    Qual è il nome della scuola?
    Istituto superiore di fotografia e comunicazione integrata, a Roma. È stato bello, mi ha arricchito soprattutto perché mi ha permesso di essere quotidianamente a contatto con gente che fa foto a 360°, dal fotoreporter a chi fa ritratti o lavora nella moda. Alla fine, le tecniche della fotografia le impari da autodidatta, con le esperienze e i tentativi.
    Io, poi, non sono affatto tecnica, lavoro molto d’istinto, scatto per me. I miei lavori sono fatti con macchine di medio formato, a pellicola, prediligo la luce naturale, o al contrario, mi piacciono quei flashetti sporchi un po’ anni ’90…
    Tornando al mio percorso, a Roma, ho iniziato facendo la “flashista”, per i matrimoni super kitsch dei veri coatti…

    Come la sciampista c’è anche la “flashista”?!?
    Certo, tipo statua della libertà, stai sempre lì col braccio alzato a direzionare il flash. Poi, ho fatto l’assistente in una ditta specializzata nelle fotografie di reperti archeologici, un lavoro abbastanza noioso, perché dovevo riprendere e catalogare un’infinità di cocci, era tutto un clic clic clic… e basta.

    Eri passata a fare la “clicclista”…
    Non solo, perché dopo dovevo lavorare in photoshop le immagini. Il giorno in cui mi sono licenziata è arrivata la proposta di lavorare con Ileana Florescu, una fotografa anglo-rumena che opera nel campo della fotografia autoriale. Da lei sono stata per cinque anni, un lavoro molto particolare innanzitutto per il luogo: lavoravo nello stesso edificio in cui avevo studiato, il pastificio Cerere, un edificio che è stato la fucina della scuola d’arte romana con Gallo, Nunzio, Pizzicannella, tutti artisti della vecchia guardia. In pratica, rispetto a quando frequentavo la scuola, sono salita di un piano.
    Il mio lavoro consisteva nel lavorare le immagini in photoshop, nel fare qualche lavoretto di grafica, ma soprattutto nel gestire e organizzare l’archivio.

    È tramite lei che ti sei avvicinata al lavoro con le gallerie?
    La sua era una situazione molto particolare, perché nasce come collezionista, cresciuta in un ambiente in cui si mastica l’arte continuamente. Se stai già in un circuito è più semplice agganciarti. Io sono stata molto bene con lei, avevamo un buon rapporto, poi quel posto è veramente magico, c’erano questi banchetti a cui partecipavano artisti di tutto il mondo. Il clima era stimolante, però, dopo cinque anni, mi sono accorta che non stavo andando da nessuna parte, era tutto molto bello ma, per me, bloccato, chiuso nei suoi riti, in qualcosa che non mi apparteneva. Rimangono, comunque, bellissimi ricordi.

    Forse non ti dava modo di crescere?
    Sì, a un certo punto ho detto basta, preferisco tornare a Pescara, farmi una casetta, una mia vita da zero. Dopo essermi licenziata, prima di tornare a Pescara, sono partita per un viaggio di tre mesi in Australia.

    Avevi già dei contatti?
    Per i primi due mesi sono stata ospite di un amico di famiglia, poi, il terzo mese sono andata in giro all’avventura, senza nemmeno una cartina. È stato faticoso ma bello perché si sono create situazioni, coincidenze, energie… In Australia ho maturato un gusto per la moda e l’arredamento vintage, pensavo già che quando sarei tornata mi sarei rimessa a posto i mobili della nonna. A Melbourne vivono proprio negli anni ’60-’70, a livello di arredamento sia delle case sia dei locali.

    Hai scattato foto?
    Sì, anche se ho portato la mia Hasselblad, la maggior parte delle foto le ho fatte in digitale.

    È stato un viaggio di quelli mistici… alla Chatwin della via dei canti…
    Devo ancora capire, sto ancora metabolizzando il viaggio. Ci sono posti veramente surreali, ho conosciuto gli aborigeni, visto i canguri…è una terra magica, oltre che molto lontana.

    I koala?
    Per vederli sono dovuta andare allo zoo.

    Gli ornitorinchi?
    Non li ho visti, però, ho visto serpenti, ragni enormi, varie specie di insetti. Ho girato abbastanza e gli ultimi dieci giorni, prima di tornare a Melbourne, sono capitata per caso in un villaggio, Tilba Tilba, una specie di comune. Alloggiavo in una ex cheesefarm, dove ho fatto wwoofing, questa forma bellissima di girare il mondo lavorando presso aziende agricole dove ti offrono il vitto e l’alloggio in cambio di alcune ore di lavoro. Raccoglievo camomilla e sfornavo banana bread. In realtà eravamo pochissimi, il guru, un ragazzo fiorentino che da sei mesi si era trasferito lì, e poi sono arrivata io. Il posto si trova ai piedi di una montagna sacra, il Gulaga. Una volta alla settimana si faceva una community dinner dove ognuno portava qualcosa da mangiare e alla quale partecipavano colti quarantenni, ex stressati dal caos metropolitano, tornati sereni e pacifici in questo eden; si stava insieme si mangiava, si suonava, e poi prima di congedarsi, ci si stringeva le mani tutti in cerchio e s’intonava un interminabile Hoooom….wow! Penso che in vecchiaia un posto a Tilba Tilba già ce l’ho.

    Ci parli di qualche tuo lavoro a cui tieni?
    Per me è tutto un unico discorso, non riesco a fare delle distinzioni, l’approccio che ho nel fotografare un corpo o un paesaggio è lo stesso, c’è sempre un’energia dietro che mi muove, è difficile da spiegare.
    Ho fatto a Roma nel 2009 una personale dal titolo Livia ed Emilia, inizia con Emilia, mia cugina, e finisce con Livia, mia nonna. In mezzo c’è una vita, fra l’attesa e la crescita. Un lavoro abbastanza introspettivo in cui c’è la storia, tappe della mia famiglia, del mio percorso. Questa foto, per esempio (ci mostra una foto di una bacinella con dei panni da lavare) mi ricorda mio padre, perché è un po’ un emblema della sua vita da uomo, tornato single, che si deve lavare i panni. A guardare sembra quasi una rosa…

    Però, diglielo che deve separare i bianchi dai colorati…
    Ma queste cose ormai sono logore, non stingono nemmeno più…

    Qual è, invece, il tuo ultimo progetto?
    Faccio parte di un blog, che si chiama Progetto QD, presentato a giugno al Forma di Milano. Siamo un collettivo di quindici fotografi, sparsi per tutta Italia, e ogni due settimane postiamo un’immagine della nostra città. Poi sto riflettendo intorno a un lavoro su mia madre, ho iniziato a raccogliere fotografie, suoi scritti che ho recuperato in casa, sono alla ricerca di ricordi, ripercorro un rapporto che non ho vissuto direttamente attraverso la fotografia. Il progetto si chiama “MAMMA!!!”, per ora…

    Abbiamo in mente un tuo lavoro che ci ha un po’ scossi, un lavoro che hai fatto per Mezzomagazine… sai vedere questi uomini in vesti adamitiche, così mezzi ignudi nella natura, quando normalmente sei abituato a vederli in tutt’altra veste, ci ha lasciato un po’ turbati.
    Intendi il lavoro per i Clap Rules? Hanno fatto tutto loro! In realtà io averi preferito un’altra delle foto fatte, loro però si sono impuntati su quest’altra, che poi è stata pubblicata.

    Si sono vergognati?
    Macché, hanno iniziato a spogliarsi… a pestare le magliette nel fango per farsi questi “para-genitali”… alla fine sono diventati dei veri “cinghiali”, li chiamo così con affetto, ci conosciamo da tempo. Avrei fatto delle scelte diverse, ma era un lavoro su commissione.

    Com’è lavorare su commissione?
    Dipende dal tipo di commissione, un conto è lavorare per una rivista, un conto per una mostra. L’anno scorso, per esempio, al Festival dannunziano era stato scelto per le opere il tema del “volo”. Ho fatto questa installazione dal titolo Non volo più: erano due cornici delle stesse dimensioni in cui in una c’era una mia foto a 4 anni, in volo tra il cielo e le braccia di mio padre, nell’altra c’era una specie di animazione, sorta di stopmotion, con le foto di mio nipote che viene lanciato in aria da mio fratello, tutto con il sottofondo della musica di Andrea Gabriele. In questo lavoro ci sono tutte le mie passioni come la contaminazione tra i media, l’amore per le foto di famiglia, i ricordi.
    Tornando ai lavori su commissione, anche i matrimoni sono lavori su commissione, quelli che ti danno più da campare. Io li prendo in modo positivo: in genere sono tutti giovani, è una festa, ti diverti, fai le foto, balli. Ho fatto anche la fotografa di scena per un film a Sharm El Sheik, sono fatta così, quando arriva un’occasione non me la lascio perdere senza pensare troppo se sono all’altezza o no…mi fido delle mie capacità, forse a tratti troppo, ma fino ad ora me la sono sempre cavata.

    Tra i vari lavori in campo fotografico c’è qualcosa che ti piacerebbe sperimentare?
    Mi piacerebbe fare fotografia di moda, mi piacerebbe provare mettendoci del mio, non mi piace, per esempio, certa fotografia un po’ soft-porn, sguaiata, mi sembra avvilente, alla fine si scade sempre nella volgarità.

    Nel tuo lavoro, qual è il momento che preferisci?
    Quando ritiro i rulli sono tutta emozionata, poi, tornata a casa, li scansiono. Per quanto riguarda il medio formato faccio solo lo sviluppo e non la stampa, è un passaggio un po’ strano perché continuo a lavorare in analogico ma stampo in digitale. Oggi come oggi, l’analogico fatto alla perfezione prevede spese elevate e ormai è sempre più difficile trovare persone “realmente” competenti.
    Un altro momento speciale, direi magico, nella fotografia è legato alla persona che stai fotografando, soprattutto quando si tratta di persone a te vicine, come i familiari… c’è sempre un’energia strana.

    Quando cerchi ispirazione cosa fai?
    In realtà, l’idea precede l’ispirazione. Come ho detto all’inizio, la fotografia si manifesta come urgenza, atto spontaneo, quindi, in genere non vado a cercare. Se poi sono avvilita perché resto ferma per diverso tempo, allora accade che faccio un giro sul web per vedere “cosa si dice in giro”, anche se tendo a non farmi influenzare troppo.

    Ti è mai capitato di vedere una persona per strada e fermarla per farle una fotografia?
    Tantissime volte, ma non l’ho mai fatto. Anche se normalmente sono estroversa, in quelle situazioni mi blocco per l’emozione. Ultimamente mi è capitato di vedere una donna in una sala d’aspetto, altissima, bianchissima, bionda, con un vestito viola a tubino, tacchi alti, indossava dei guanti di cotone bianchi. Stavo lì a guardarla, e avevo anche la macchina fotografica… ma non ce l’ho fatta! Dopo, ci sono stata male tutta la notte, continuavo a ripetermi che non sono una vera fotografa… che dovevo fare lo scatto… che non dovevo perdere l’occasione… ancora ci penso!
    Alla fine dovrei girare sempre con le liberatorie in mano. Ho molte foto ma, non avendo la liberatoria, non le posso n’è pubblicare, né esporre.

    Leggevo che ora in Inghilterra non si possono fotografare nemmeno gli edifici, dev’essere frustrante per un fotografo…
    È una cosa che mette abbastanza in crisi noi fotografi, ci sono continuamente limitazioni legate alla sicurezza, alla privacy, alla tutela dei minori…

    Consigliaci un sito?
    Progetto QD, nel sito non trovate i nomi dei fotografi, solo le città da cui inviamo le foto. Per ogni città c’è un solo fotografo.

    Una rivista?
    Internazionale, e Cucina naturale, mi piacciono le riviste di cucina. Quando stavo in Australia ho scoperto Frankie, un magazine che mi ha tenuto compagnia in ore di attese in aeroporti, bello per gli articoli, le immagini, la carta. Tra le altre cose, mi piacciono le riviste di arredamento.

    Libri?
    Ho appena finito di leggere La metafisica dei tubi di Amélie Nothomb, però, il mio autore preferito in assoluto è Carver. Prima ero molto più legata ai romanzi, ora preferisco i racconti. Un libro di racconti che mi è piaciuto molto è La ragazza dai capelli strani di David Foster Wallace.

    Vedi TV?
    Sta lì, ma non la vedo.

    Cinema?
    Mi piace molto ma mi dimentico tutti i film, anche quelli che mi sono piaciuti tantissimo. Uno di questi che ho rivisto da poco è Home di Ursula Meier.

    La città in cui vivresti?
    Penso Berlino, anche se per ora a Pescara ci sto bene.

    Musica?
    Mi piace tutto, mi piace la musica, sia da ascoltare che da ballare. Ti posso dire che a farmi compagnia nei momenti paranoici c’è sempre Cat Power, ora sto in fissa con Connan Mockasin. Ultimamente sto lavorando al Post Bar e, tra Marco e Faustino, il boss, ascolto tantissima musica. Una cosa che, invece, non mi interessa assolutamente è il pop italiano.

    Fotografi preferiti?
    Non sto qui a elencarti i grandi, vado con un nome solo, fotografa contemporanea giapponese, Rinko Kawauchi. L’apprezzo per come riesce a catturare la bellezza nell’ordinario, rendendo la semplicità emozionante.

    Quali sono le qualità che servono per il tuo lavoro, e quali vorresti avere?
    In generale, penso che si debba essere d’animo buono, pazienti, e avere la giusta sensibilità.
    Per quanto riguarda me, vorrei essere più sfacciata, per poter chiedere alle persone di farsi fotografare.

    Cosa ti aspetti di trovare nel tuo futuro?
    Non ci penso molto, mi piace fare molte cose, fotografare, cucinare, cucire, disegnare… non so ancora cosa fare da grande. Nel futuro, la mia ambizione più grande è quella di essere serena.

    Invece, una preoccupazione?
    Non ho una preoccupazione in particolare, forse, quella di arrivare a un’età in cui sia troppo tardi avere un figlio.

    Ci fai i nomi di persone che secondo te vale la pena di conoscere?
    Molti nomi sono stati già fatti, di nuovi ti direi Barbara Tucci, amica e fotografa, una bella persona, apprezzo il suo approccio al mezzo fotografico; distante dal mio lavoro ma, secondo me molto forte, anche se la conosco poco, Sabrina Caramanico, sempre fotografa, fa un lavoro duro ma sempre coerente e riconoscibile; Emanuela Barbi, artista e bellissima persona; Alessandra Pallotta, prima viveva a Milano e con altre colleghe aveva questa società che si chiama Ciboh, oggi lavora, sempre con il cibo, occupandosi di catering molto particolari a Berlino, davvero geniale. Lasciando il mondo femminile, farei il nome di un artista che si sta muovendo in maniera originale per la sua prossima mostra, Piotr Hanzelewicz; un altro che non è stato nominato è Simone Zaccagnini, ha una grande padronanza del tratto nel disegno; Gianluca Palma, grande amico e operatore video; Orlando EF, cantante e musicista; Gaetano Carboni, che con la sua Pollinaria porta avanti un interessante progetto tra agricoltura e arte. Per finire, vi inviterei a conoscere mio fratello Gabriele, un soggetto particolare che combatte con passione per la diffusione delle piste ciclabili a Pescara, è anche grazie a lui che sono arrivata alla fotografia.

    links:
    http://claudiaferri.tumblr.com/

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    foto di Pippo Marino

    slideshow su flickr


    24 thoughts on “Canguri vintage e foto di famiglia

      1. è che siamo capitati in un giorno infrasettimanale di agosto, altrimenti ce ne saremmo accorti anche noi…

    1. “Ci dev’essere qualcosa negli attici che attira i fotografi come le margherite per le api”
      dev’essere perchè compensano la ridotta dimensione della visuale nell’obbiettivo della macchina fotografica con i grandi spazi che si concedono a chi si innalza da terra.
      O forse è solo questione che c’è più luce e, si sa, i fotografi son fissati con la luce :)

      1. mi sa che è per entrambi, però l’idea di compensare la limitazione del mirino con uno sguardo più ampio mi piace molto!

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