UFO robot, fumetti e strani oggetti vibranti

    Questa volta andiamo a Grottammare con Emiliano e Silvia a trovare un loro amico, il fumettista Adriano De Vincentiis. “Quando vedrai dove abita Adriano – mi ha detto con fare misterioso Emiliano – rimarrai a bocca aperta”.
    È stato così. Adriano ci ha accolti in quella che si potrebbe definire la perfetta “tana da fumettista”. Un antro dove la luce solare entra appena e tutto è rischiarato solo dalla luce riflessa dal tavolo da disegno. Ogni cosa, anche la polvere, racconta della passione, che è poi vita e lavoro, di Adriano. Niente porte, niente cucina, tutto è fumetto, disegno e musica. Le pareti sono occupate in ogni centimetro quadrato da poster, albi, e una infinità di action figures raccolte per serie, provenienza e tipologia.
    Quando ho visto tutti questi pupazzi, in tutte le scale di riproduzione possibili e immaginabili, mi sono riapparse in mente le ore passate da piccolo a fantasticare sulle storie dei cartoni animati, tipo che ero il fratello più piccolo di Actarus e salvavo Venusia, oppure che sostituivo Tetsuya alla guida del Grande Mazinga  perché decisamente più fico e bravo, oppure che dalla fibbia della cinta sparavo un raggio antigravitazionale che rifaceva da solo il letto…
    L’acme l’ho raggiunto quando ho visto i modellini perfetti di due Aquile di Spazio 1999: sono letteralmente impazzito, roba che a confronto un fan di Britney Spears sembrerebbe più controllato di un monaco zen, roba da palpitazioni, occhi fuori dalle orbite e respiro affannato.
    Ragionando da posato (al limite del catalettico) quarantenne quale sono diventato, oggi non darei così tanta importanza a un pezzo di plastica colorata, ma per 2 minuti sono tornato bambino e, in quello stato, avrei fatto qualsiasi cosa per avere il modellino di un’Aquila, compreso vendere mia madre e mia nonna al mercato del sesso di Ankara, se poi avessi potuto avere anche quell’aggeggio che sembrava un microfono russo con televisorino incorporato con cui parlavano tra di loro il comandante Koenig e la dottoressa Helen, avrei potuto aggiungere alla confezione anche i miei due fratelli e un paio di cugine a scelta.
    Adriano ha subito compreso il mio stato d’animo e mi ha confidato in un sussurro: “Per me il capitano Koenig è dio, potrebbe chiedermi di fare qualsiasi cosa e io lo farei…”

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    In due parole, ci racconti cosa fai?
    Già a 18-19 anni mi sono specializzato nel disegno. Tutto inizia con una passione primordiale, irresistibile e pura per il disegno. Ho iniziato a 9 anni e si può dire che da allora non ho mai smesso.

    In questo sei stato guidato da qualcuno in famiglia o a scuola?
    Ricordo che la prima volta che ho messo la matita sul foglio è stato grazie a mio padre. Era un appassionato di disegno, uno dei suoi tantissimi hobby, – aveva tutta un’altra vita professionale, era un tecnico riparatore di radio e tv – ma a casa avevo i ritratti che aveva fatto a me e a mio fratello. È stato lui a mettermi la matita in mano all’età di 7-8 anni, lo ricordo ancora, eravamo in cucina. So che questo ha avuto sicuramente una grossa influenza in me.
    Tutto nasce dal disegno, dal bisogno ossessivo di disegnare. A 18-19 anni, ho cercato di incanalare la mia passione in un lavoro e ho provato subito con l’illustrazione. Ho tentato un paio di cose con case editrici locali, tra cui un gioco da tavolo, però, sentivo che qualcosa dentro di me non andava, e ho abbandonato tutto. Siccome in casa giravano dei fumetti, ho capito che quella era l’espressione che mi permetteva di mettere in atto contemporaneamente tutte le mie passioni: il puro amore per il disegno, l’attrazione irresistibile per il fantastico e la curiosità per l’erotismo. Da subito inizio a disegnare donne, del resto le mie influenze provenivano da quegli autori, da Milo Manara a Tanino Liberatore e infiniti altri, che facevano della rappresentazione della donna, del femmineo, il fulcro del loro lavoro. Dopo questo tentativo nel mondo dell’illustrazione ho iniziato subito a lavorare come fumettista.

    Hai fatto una scuola per questo?
    Solo il liceo artistico.

    E ti è servito?
    Per alcune cose sì, più che altro mi ha dato una forma mentis. Non è l’istituzione scolastica in sé, quanto la fortuna, o la capacità dell’alunno, di sapersi muovere all’interno della scuola per trovare stimoli e maestri. Per me il liceo artistico ha iniziato a funzionare quando l’ho scardinato e ho stabilito un rapporto personale col professore, cosa che penso avvenga anche nell’accademia, anche se io non l’ho fatta.

    Da piccolo eri un fan e utilizzatore compulsivo di fumetti?
    Il mio primo fumetto l’ho fatto a 9 anni, ce l’ho ancora. La mia più grande aspirazione, e ispirazione, era il fumetto, poter raccogliere all’interno di una sola pagina tanti disegni, tanti punti di vista, su uno o più personaggi, poter giocare a livello registico, far muovere le emotività dei personaggi, farli muovere fisicamente… Ero appassionatissimo di fumetti, però, venendo da una famiglia con condizioni economiche molto modeste, non avevo la possibilità economica di comprare tutti i libri che avrei voluto, per questo, appena ho potuto, mi sono trovato un lavoro.

    Su che cosa ti sei formato, quali erano i tuoi fumetti preferiti?
    I primi in assoluto che ho visto erano dei numeri di Lancio Story e Skorpio, dei primi anni ’80. Fortunatamente raccoglievano il lavoro di alcuni degli artisti più grandi del fumetto mondiale, Hermann, belga, Horacio Altuna, spagnolo, Jordi Bernet, spagnolo, Esteban Maroto, Juan Gimenez… fumetti sconvolgenti a livello sia grafico sia artistico. Successivamente, in Italia, tra la metà degli anni ’80 e i primi anni ’90, c’è un periodo floridissimo per cui in edicola si trovano tante pubblicazioni e riviste come Comic Art, L’eternauta, Torpedo, Bhang, Corto Maltese, Frigidaire. Lì c’era tutto, da Hugo Pratt a Milo Manara, da Tanino Liberatore a Frank Miller, da Andrea Pazienza a Richard Corben, i manga non esistevano ancora in Italia. Ammetto che ho avuto la fortuna di vivere in un periodo storicamente florido, ho potuto veramente usufruire del meglio. Collezionavo poche riviste, avere quelle 2-3 mila lire per comprarle ogni mese non era facile, mamma faceva l’infermiera, mio padre è mancato subito, dai miei 9 anni, con uno stipendio solo e due figli cercavamo di vivere col poco che avevamo. Ma ho iniziato a guadagnare presto e già a 19 anni firmo il mio primo contratto con una casa editrice italiana.

    Come sei arrivato a pubblicare così giovane?
    Ho preso la mia cartella e sono andato a Bologna. Tramite gli amici mi sono informato su quali erano le case editrici più disponibili ad accogliere nuovi autori, e sono arrivato alla Granata Press, diretta da Luigi Bernardi, con un art director eccellente, Roberto Ghiddi, che tutt’ora lavora nel campo dei fumetti, con una valanga di disegni. Mi crescono, per un anno circa, mi seguono, mi danno i loro consigli e nel ’92 firmo il mio primo contratto.

    Come si chiama questo fumetto?
    Koshka. L’ho iniziato nel ’92 e finito nel ’93 a 21 anni, un fumetto di fantascienza con questa protagonista donna russa molto forte, una tecnoterrorista ex-galeotta, una cosa cyberpunk. Ci ho messo tutto me stesso, negli anni seguenti è stato strapubblicato, è uscito anche in 4-5 lingue.

    Era una tua idea o hai lavorato su un soggetto già esistente?
    La sceneggiatura era di uno scrittore, Stefano Di Marino, che a quel tempo si occupava di fumetti, scrisse un soggetto geniale, mi sentivo miracolato per avere la possibilità di disegnare cose del genere. Ho lavorato sulla sua sceneggiatura ma sempre proponendo un mio contributo, come faccio tutt’ora.

    Dopo Koshka?
    Già nella prima metà degli anni ’90 questo periodo fortunato del fumetto italiano finisce. Il mercato subisce un vero e proprio collasso, forse per una sovrapproduzione. In quegli anni Bonelli con Dylan Dog si prende una fetta di pubblico gigantesca in Italia, il fumetto italiano più d’autore inizia a soffrire, non vende più, tante case editrici chiudono, la stessa Granata Press fallisce e io faccio un incontro molto importante con un illustratore argentino di origini italiane, Oscar Chichoni. Vado a vedere una sua mostra, lo incontro, gli faccio vedere il mio lavoro, e lui lo apprezza così tanto da invitarmi a lavorare con lui ad alcuni progetti cinematografici sperimentali a Los Angeles. Così, su due piedi, nel ’95, prendo un aereo e vado a Hollywood, a 23 anni, uno shock per me che venivo dal mio piccolo centro cittadino.

    Com’è il lavoro del fumettista prestato al cinema?
    Più che del fumettista era il lavoro del disegnatore prestato al cinema. All’inizio aiutavo Oscar, disegnavamo insieme, ci occupavamo di visualizzare personaggi e scenografie o quelli che in America chiamano i props, gli oggetti di scena. Ho fatto anche qualche storyboard, però è molto diverso se si fanno per il cinema o per l’animazione. Per lo storyboard nel cinema si fanno delle bozze, disegni in cui è assolutamente irrilevante la qualità tecnica, ciò che importa è visualizzare per il regista e la produzione esattamente come sarà l’inquadratura per capire quanto si spende, quanta scenografia si deve costruire, che luci utilizzare ecc ecc. Per il cartone animato è esattamente l’opposto: il disegno deve rappresentare già dallo storyboard quello che si vedrà sullo schermo, è molto più impegnativo ma anche più bello e divertente. In realtà anche quando ho disegnato storyboard li ho sempre interpretati in chiave fumettistica. Negli storyboard si usa lo schema fisso del 16:9 all’interno del quale si dispongono i personaggi. Dopo un po’ mi iniziai a stufare e, siccome ero anche molto arrogante all’epoca – avevo 23-24 anni –, iniziai a fare delle tavole a fumetti. Ho ancora da qualche parte queste enormi blueprint dove questo cartone animato è fumettistico. Il produttore di allora si esaltò perché una cosa così non si era mai vista. Dopo di quello non ho fatto altri storyboard, solo uno nel 2000 e solo per ragioni economiche, perché è un lavoro di una noia infinita, è stato l’ultimo.
    In tutti questi anni, dal ’95 al 2000, ho fatto continuamente avanti e indietro tra Stati Uniti, Italia e Cina dove lavoro Tsui Hark, un produttore e regista cinese, che mi convince ad andare a lavorare con lui ai i suoi progetti di animazione. Con lui lavoro tra Hong Kong e Bangkok per un paio d’anni. La Cina è stata meravigliosa, Hollywood non altrettanto.

    Perché?
    A livello lavorativo ho trovato Hollywood molto fredda, una catena di montaggio, in Cina sono stato benissimo, forse perché Tsui è un artista pazzesco, disegna benissimo, ci capivamo, invece a Hollywood avevo a che fare con questi production designer e art directors che non sanno tenere nemmeno una matita in mano, vengono lì, sul tuo tavolo, solo a urlare per dimostrare il loro status gerarchico all’interno dell’art department. Mi godevo più Los Angeles come città, come possibilità culturali e di vita, che come esperienza lavorativa.

    In Cina cosa è diverso?
    Hanno una gerarchia che però è strettamente funzionale al progetto, hanno un budget ristretto rispetto a quello americano – non hanno né Dreamworks né Disney né Paramount – e sono lì a lavorare duro per far funzionare il tutto, ognuno da il massimo di sé. A Bangkok lavoravo sui costumi e dopo aver finito il mio disegno andavo nella sartoria con i modelli e potevo parlare direttamente coi costumisti per ottenere quello che avevo immaginato sulla carta…

    Non è sconvolgente vedere che quello che hai immaginato su carta poi diventa reale?
    Non non più di tanto. Vedere una mia scenografia in un film non mi da tutta questa soddisfazione, anche perché al 99% non ci sarà il mio nome oppure, se mi va bene, si vedrà per una frazione di secondo. La grande soddisfazione per me è vedere il mio fumetto pubblicato e riconosciuto, un lavoro di cui sono l’unico e il solo responsabile.

    Hai interrotto per questo?
    Sì.  Dietro gli studi della Paramount ho visto gli storyboard buttati. I lavori su cui i disegnatori hanno lavorato per mesi, una volta fatto il film, non servono più, li buttano, non c’è nessuna velleità artistica, nessuna utilità al di fuori della realizzazione dell’inquadratura. Ho visto gli storyboard per Dracula di Brian De Palma di Bram Stoker, di Francis Ford Coppola, gettati via, un mio amico ha raccolto dalla spazzatura gli storyboard di Blade Runner, che tra l’altro sono fatti da un artista stupendo e sono tra gli storyboard più belli…

    Ma almeno c’è un riscontro economico?
    Certo, quando c’è una major alle spalle ti pagano benissimo, e i pagamenti sono settimanali. Ma, se uno ha voglia di avere un altro tipo di ritorno, oltre a quello economico, di un altro livello, artistico, qualcosa che cresce dentro di te e ti da piena soddisfazione creativa, non è assolutamente quello il campo.

    Tra queste cose che hai fatto per il cinema, qual è quella che ti ha dato più soddisfazione?
    Penso un progetto di Tsui Hark al quale ho lavorato a lungo tra il ‘97 e il ‘98, un film che, poi, lui non ha mai realizzato, tutto in 3d, immaginato all’interno del corpo umano.

    Tipo Viaggio allucinante?
    Si, però immagina i globuli rossi, i globuli bianchi, i batteri, i virus come personaggi mitici a metà tra il fumetto e il cartone, era meraviglioso, mi sono divertito come un pazzo.

    Durante questo periodo continuavi col fumetto?
    Ogni tanto facevo delle pagine mie, ma non realizzavo fumetti, questo lavoro mi ha praticamente strappato dal mondo dei fumetti per quasi otto anni.

    Tornato in Italia cosa hai fatto?
    Ho deciso di dedicarmi al fumetto. Anche perché non ero io a decidere i tempi di lavoro, dipendevo dai produttori, o dai registi. Quando non mi chiamavano e non c’erano film da realizzare, stavo a casa con le mani in mano. Ho iniziato a chiedermi perché dovevo aspettare che mi chiamassero, così ho deciso di tornare al fumetto, e gestire io la mia vita.

    Hai dovuto iniziare daccapo?
    Più o meno, però potevo usufruire di questo curriculum cinematografico. Ho provato prima con la Spagna, ma non ha funzionato. In Italia non c’era assolutamente nulla da fare perché il mercato era morto. Ho provato anche in Giappone ma non sono riuscito perché sono molto chiusi a livello stilistico, se non disegni con il loro stile non ti fanno lavorare. In Francia ho provato con diversi editori, mi presentavo come ex-fumettista appena uscito da un’esperienza col cinema, e ad alcuni editori interessava anche, lo vedevano come una capacità in più. In realtà, non è un curriculum cinematografico che ti permette di entrare nel mondo del fumetto, le mie credenziali di lavoro con Dreamworks non contavano nulla se non dimostravo di sapere fare i fumetti, questo per me è stata una grandissima dimostrazione di autenticità degli editori francesi.

    Hai trovato subito una risposta positiva?
    Sul mio lavoro le risposte erano tutte ottime. Poi, ho incontrato questo editore svizzero, che pubblica in tutta la Francia e in Belgio, che mi ha proposto un’idea. Mi ha raccontato, insieme allo sceneggiatore, questa storia mentre passeggiavamo di notte in un bosco, ho sentito dal primo secondo che era il progetto che faceva per me. Durante la notte ci ho pensato, al mattino dopo ho passeggiato in un cimitero a Ginevra e ho visto una bambina inginocchiata su una tomba, li ho capito che dovevo disegnare Sophia. Abbiamo lavorato insieme per 5 anni su questo progetto, una trilogia, un thriller esoterico-erotico che ha avuto un successo totalmente inaspettato. Questo mi ha permesso, lavorando sodo, mettendoci tutto me stesso, di guadagnarmi una fetta di pubblico in Francia, il più grande mercato del fumetto al mondo. Non stiamo parlando di grandi cifre ma ho un mio pubblico che apprezza quello che faccio e mi segue.

    In Italia?
    Nulla, le mie uniche pubblicazioni sono state sul nuovo Frigidaire di due anni fa.

    Questo come te lo spieghi?
    Innanzitutto, il mio lavoro non è mai stato pubblicato in Italia, ma, a parte questo, in Francia c’è un pubblico completamente diverso. Il compratore di fumetti francese è preparato, ha un gusto coltivato da una lunghissima tradizione, esige qualità nel prodotto sia dal punto di vista artistico che tipografico. In Francia ogni anno sono pubblicati circa 3000 nuovi fumetti, con una varietà di case editrici, generi e storie impressionante. Questo, in Italia non esiste e non è mai esistito.

    Non è anche perché c’è questa convinzione per cui il fumetto sia roba per bambini o per illetterati?
    In Italia il fumetto è Topolino o Dylan Dog. È un semplice prodotto di consumo. Guarda il formato di un Dylan Dog, oppure lo stato in cui artisti bravissimi, che lavorano per Bonelli, sono costretti a lavorare: c’è una griglia di 9 quadratini a pagina dalla quale non possono uscire, il tutto per poi essere pubblicati su una carta da 2 centesimi. Io non esporrei mai la mia collezione di Dylan Dog, è brutta. Non voglio offendere, i primi venti numeri di Dylan Dog sono assolutamente geniali, però… questo è il fumetto italiano. In Francia è tutto l’opposto, i fumetti sono stampati benissimo, hanno copertine rigide, appendici con raccolta di schizzi e bozze, tirature speciali, portfolii, poster, statue, è tutto un altro mondo…

    Ultimamente, anche da noi il settore della graphic novel sembra fiorire…
    Ora sì, però, un Manara – parliamo dell’artista più famoso al mondo – in Italia può vendere 2000 copie, in Francia se vendi meno di 10.000 copie sei uno sfigato, si va dalle 40.000 al milione di copie. Una serie che va bene vende 500.000 copie, non 2000. Uno come Enki Bilal, un artista che fa delle cose completamente pittoriche, vende tantissimo in Francia. Nel 2004 il suo Il Sogno del mostro, l’ultimo episodio della Fiera degli Immortali che porta avanti da tantissimi anni, è stato il libro più venduto in assoluto. Le sue storie non sono commerciali alla Asterix o alla True Blood, sono storie complicatissime, interiori, anche difficili da comprendere. Questo dimostra che c’è un settore editoriale che tende alla qualità e che c’è un pubblico pronto a recepire.

    Nell’ambito del fumetto ci sono ancora filoni o scuole nazionali molto marcate – fumetto francese, belga, americano, giapponese ecc ecc – oppure oggi le differenze sono sempre più labili?
    Da quando c’è internet c’è sempre più contaminazione tra gli stili. È positivo, basta che rimanga un disegno bello, innovativo, interessante, il clone, al contrario, è noioso. Recentemente è uscita una serie in Francia che si chiama Sang royal, in italiano dovrebbe essere uscito col titolo Sangue regale, scritto da Alejandro Jodorowsky, e disegnato da un cinese, Dongzi Liu di 31 anni. Guardando il suo lavoro sono rimasto esterrefatto, è un lavoro misto tra il classico giapponese, manga, con caratteri del viso abbastanza stilizzati, colorato in digitale come molti artisti ora fanno, e la cultura visiva europea, con armature e personaggi dettagliatissimi. È meraviglioso perché sembra di rivedere Ken il Guerriero o Berserk immersi in un’atmosfera quasi rinascimentale e curatissima. È una delle cose più interessanti che ho visto ultimamente.

    Tornando al rapporto col cinema, non credi che il cinema abbia sfruttato molto l’immaginario fumettistico? Pensiamo a tutte le versioni cinematografiche da Superman a X-Men a tutta questa serie infinita di superhero movie…
    Se lo guardi in maniera critica è imbarazzante quello che sta succedendo nel cinema dal ’92, ovvero dal primo Batman di Tim Burton, l’inizio di un delirio. Il cinema americano degli ultimi 20 anni è in una crisi di contenuti e idee mai vista, e ha trovato la sua fortuna nel fumetto. Pensiamo a un campione d’incassi come Watchmen: Alan Moore e Dave Gibbons hanno fatto Watchmen nel ’89, il cinema ci è arrivato tre anni fa. Il cinema in questo ha dimostrato di essere indietro, come capacità tecniche ed espressive, rispetto al fumetto di più di dieci anni.

    Non dipenderà anche dal fatto che il fumetto ha una leggerezza e una flessibilità irraggiungibile da a una macchina industriale pesante e lentissima come il cinema?
    Secondo me il cinema è tremendamente arretrato rispetto al fumetto non solo per i mezzi tecnici ma come un tipo di medium. Nel cinema lo spettatore è passivo, subisce, soprattutto ora in cui l’esperienza uditiva sembra quasi prevaricare su quella visiva. Gli schermi sono sempre più grandi e con il 3d sei sottoposto a una vera e propria bomba emotiva. Nel fumetto il lettore è attivo, sceglie i tempi, decide quando girare pagina, sceglie i suoni da immaginare, da le voci ai personaggi. C’è poi il discorso artistico: nel fumetto ci sono geni che il cinema non ha.

    Vabbè, non vale, lo dici perché sei un fumettista…
    A me il cinema piace, lo guardo e lo consumo, però, non mi piace il cinema d’intrattenimento.
    Nel fumetto c’è sempre una componente registica comune al cinema, i due mondi sono molto più vicini di quanto si possa immaginare… tuttavia, il fumetto propone una serie di immagini fisse che devono creare l’illusione, o la percezione, del movimento, il cinema, invece, è movimento. Pensa a un Frank Miller che in Ronin ha fatto dei miracoli per suggerire il dinamismo. Quando leggi quel fumetto ti rendi conto di dove il cinema non potrà mai arrivare.

    Nel fumetto la rappresentazione del tempo ha i suoi meccanismi, per quanto riguarda cose più impercettibili, come le emozioni dei personaggi, atmosfere impalpabili, come si rendono?
    Nel fumetto è stato reso tutto. Dino Battaglia, negli anni 60 e ’70, faceva cose incredibili. Rispetto ad altre forme espressive, come il cinema, il fumetto viaggia su binari diversi, è puro piacere visivo, è più simile a un libro d’arte da sfogliare lentamente. C’è qualcosa legato puramente al piacere visivo e tattile: un conto è avere in mano un tot di pixel che rappresentano un’immagine sullo schermo e sfogliarti il tuo ebook, un conto avere in mano un fumetto.

    La sfida più grossa che hai fatto in un fumetto quale è stata?
    Sophia
    per me è stata una sfida, perché era un tipo di storia nuova, io non ero conosciuto, idem lo sceneggiatore, medio-piccola la casa editrice, una sfida gigantesca per me, ho dovuto crederci al 200%. Forse, oggi una sfida sono le cose che sto facendo con gli americani, mi sto confrontando con alcuni dei personaggi più mitici del mondo dei supereroi, Thor della Marvel o i Fantastici 4, o Wonder Woman della DC… è una prova dura perché sono personaggi disegnati da talmente tanti artisti che è inevitabile il confronto.

    Tra Sophia e questi recenti progetti ci sono altri lavori a cui tieni?
    Nel 2009 è uscito un libro in Francia, dal titolo Secret Sophia, un artbook, del quale sono più contento degli altri perché è tutto a matita. Contiene per la maggior parte solo disegno, non è un fumetto, c’è una storia breve, quasi pornografica, che ho scritto da solo, si chiama Alias. Ha la prefazione di Milo Manara, una cosa per me bellissima perché è un maestro che stimo tantissimo.

    A proposito, siccome molti non sanno come si fa un fumetto, io per primo, ci spieghi quali sono le fasi?
    Quando lavoro su sceneggiature di altri, prima la leggo ma non tutta, in realtà leggo 5 pagine alla volta, perché non voglio perdermi io stesso il gusto, il piacere di scoprire. Questo mi causa una serie di problemi giganteschi perché capita che personaggi che disegno come comparse scopro in seguito che sono dei comprimari. È un rischio che corro volontariamente perché mi tiene sempre all’interno del puro divertimento. Poi, inizio a disegnare, riempio fogli e fogli di bozze, un delirio, e quando l’idea è matura, lavoro sulle pagine.

    Sei metodico, hai un processo di lavoro che ami seguire?
    No, il metodo non esiste, non voglio mai perdere il piacere e il divertimento di disegnare.
    Tornando alle fasi, faccio una serie di bozze, e disegno singolarmente ogni inquadratura che devo mettere nella pagina. La pagina di un fumetto contiene in genere 9-10 vignette, in quella francese anche 12-13, perché ha 4 strisce diversamente da quello italiano che ne ha 3. A volte faccio una bozza della composizione in piccolo, però ogni scena la disegno a parte su dei fogli grandi, a testa mia, appunto perché mi voglio divertire. Alla fine scansiono tutto e passo in Photoshop per comporre la pagina. Sullo schermo scelgo quali disegni utilizzare, vedo quelli che non vanno bene, li rifaccio, poi faccio delle stampate che uso al tavolo luminoso per completare la mia pagina.

    Ma li ridisegni una volta che sono sul tavolo luminoso?
    Sì, li ritraccio tutti in blu, e li inchiostro con i pennarelli, a pigmenti di china. La mia pagina di fumetti finale è una sola pagina fatta a mano, compresi i balloon. Il baloon per i testi fa parte del disegno, non è sovrapposto, perché questo mi condiziona il disegno, quindi non voglio che venga messo dopo da un altro. La mia pagina a fumetti è assolutamente tradizionale e artigianale, così come la vedi, viene pubblicata, non c’è nessun intervento esterno.

    Ti è mai venuta la voglia di animare i tuoi disegni?
    Onestamente no. Recentemente mi hanno chiesto di fare un video perché in Francia c’è questo trend dei trailer video per i fumetti, in cui i disegni si muovono a ritmo con la musica. Ho fatto un video utilizzando le vignette del mio fumetto ma non le ho volute animare perché voglio che il disegno rimanga come l’ho disegnato: nel fumetto il movimento deve essere suggerito, se poi lo animo, che cazzo l’ho suggerito a fare?

    Parlando più di te, quando hai bisogno di ispirazione cosa fai?
    Mi piace incontrare i miei colleghi, per esempio ieri sera ho incontrato Tanino Liberatore ma, quando posso, cerco sempre di andare a Parigi a trovarlo. L’ultima volta che sono stato da lui ha tirato fuori dei disegni che ho ancora dentro gli occhi, mi danno l’ispirazione e la voglia di disegnare. È un grande maestro più che un amico. Oppure vado a vedermi grandi artisti del passato, sui libri o su internet, magari scopro anche nuovi artisti che mi fanno venire voglia di disegnare.

    Questa tua insana passione per gli action figures da cosa deriva?
    Dal continuo bisogno di rimanere legato alla mia infanzia.

    È un piacere nostalgico?
    Non è nostalgico, è un bisogno di continuare a giocare, di rimanere bambino. Ci gioco, senza nessuna preoccupazione. Inoltre, li adoro, li trovo belli a livello estetico. Amo tutti i personaggi che vedi qui dentro, da Go Nagai ai robot, sono totalmente fissato per i robot, più sono vecchi e più mi piacciono, mi piacciono le forme meccaniche.

    E questo ti influenza anche nel fumetto?
    Assolutamente sì. Ultimamente sto preparando molti disegni per una mostra a Parigi che farò a gennaio, e sto facendo molti disegni sui robot. È una specie di mio tributo ai personaggi che ho amato di più, Jeeg, i Masters of the Universe, Lady Oscar, Vampirella, i Fantastici 4, Thor…ma ci sarà anche il mio lavoro, tutto il mio ultimo libro in originale, le singole tavole.

    Ma non è strana la tua passione che accomuna Manara a Mazinga Z,  sembrano mondi diversissimi…
    Sono mondi completamente differenti, però si tratta sempre artisti di dimensioni incommensurabili. Se oggi possiamo concepire l’esistenza di un robot gigante pilotato da una persona, è perché Go Nagai l’ha inventato dal niente, nel ‘74 con Mazinga Z, prima di lui non esisteva niente del genere. Milo Manara, negli anni ’90, si è inventato Claudia, una frigida alla quale viene fatto un intervento al cervello a sua insaputa, e immagina la macchina della libido, un parallelepipedo con un potenziometro che aumenta o diminuisce la libido di questa donna che, da frigida, diventa la più grande troia nell’universo…

    Tipo Master of the universe, ma in tutt’altro campo…
    Ho comprato da poco un oggetto sessuale ispirato a questa macchina, un piccolo vibratore con un telecomando con cui si può aumentare le vibrazioni a distanza. Manara, dopo aver ispirato le fantasie sessuali di un’intera generazione, entra direttamente nella fica delle donne, questa è la potenza di un Manara…

    Non so se andarne fiero…
    Ok, ma, Spielberg non fa questo, non entra nella vagina delle ragazze, non so se mi spiego…

    Chiarissimo, anche se un vibratore a forma di ET avrebbe un suo mercato…
    Quando ho visto questo aggeggino mi sono commosso. Ho fatto questo esempio per farti capire che la potenza di questo artista va oltre il fumetto, entra nella vita di ognuno, il suo erotismo è a un livello talmente elevato che unisce innocenza ed eleganza…

    In Manara il lato erotico è palese, però è anche vero che in tantissimi cartoni animati, soprattutto giapponesi, l’erotismo è presente. Per dire, Fujiko di Lupin III è una donna provocantissima, però a 10 anni non te ne rendi conto, oppure una Aphrodite A che spara le tette, visto ora ha tutto un altro significato…
    Ho pensato a lungo a questo. Aphrodite A, che è la versione donna di Mazinga Z, è la prima robot donna che spara le tette della storia dell’umanità, e l’ha inventata Go Nagai nel ’74, è un avvento gigantesco paragonabile, come importanza, solo alla nascita di Gesù Cristo… è qualcosa di meraviglioso. Fujiko e Lupin sono permeati di erotismo e sesso continuo, però dobbiamo ricordarci che è Monkey Punch che disegna questo fumetto negli anni ’70, sicuramente guardando anche al nostro Diabolik. Io potrei essere schiavo a vita di Fujiko…

    A proposito dei tuoi gusti, dicci quali sono i tuoi siti di riferimento.
    Alcuni penso di non poterveli dire… comunque non ho tantissimi siti di riferimento, uso internet per questioni puramente di lavoro, di comunicazione e per vedere cose che altrimenti non potrei raggiungere attraverso altri canali. Praticamente ne guardo talmente tanti che, sia nella mia testa che nei preferiti del mio browser, c’è un tale caos che adesso non riesco a citartene nemmeno uno, sono troppi.

    La tua rivista di fumetto preferita?
    C’erano delle riviste interessanti, ora non ci sono più.

    Libro preferito?
    Nella narrativa ci sono poche cose che mi hanno veramente sconvolto, tra queste ti posso citare Neuromante di William Gibson, La vita di Carmelo Bene, le letture esoteriche dei Vangeli apocrifi e I testi di Rudolf Steiner e, per finire, Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking.

    Vedi TV?
    Zero, non l’accendo da otto anni.

    Film preferiti?
    Stalker
    di Tarkowsky, La pianista di Haneke, Il cattivo tenente di Abel Ferrara, tutto Hitchcock, poi, amo alla follia Barbarella di Roger Vadim, Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene, tutto Kubrick… poi, certo, vado a vedere tutti i film dei supereroi. Quando ho visto X-Men 2 ho pianto… nella scena in cui l’aereo si spezza e Nightcrawler si getta a riprendere Kitty Pride… e la mette in salvo… avevo le lacrime agli occhi. Ma mi commuovo sempre anche quando vedo il primo Superman di Richard Donner, piango come un bambino piccolo… Non parliamo delle delusioni che provo, i Fantastici 4 al cinema fa pietà, lo stesso il Superman di Singer, a parte la scena dell’aereo che precipita sul campo di baseball, da paura!

    Musica?
    Assolutamente tutto, devo sempre avere qualcosa da sentire, lascio lo stereo acceso anche quando esco… oggi ascolto Frank Sinatra, domani violenta tecno berlinese. Se vi devo consigliare qualcosa direi questa jazzista degli anni ’60 che si chiama Karin Krog, lei e un sassofonista che si chiama John Surman mi hanno completamente sconvolto; poi, c’è questo compositore che ha lavorato molto con David Sylvian che si chiama Burnt Fridman; Patricia Barber, un’altra jazzista. Mi piace tutta la musica elettronica e, in più, sono un grande fan di Prince.

    La città in cui vivresti?
    Grottammare, qui dove siamo oggi.

    Quali sono i tuoi fumetti preferiti? non so se basterà la batteria del portatile…
    In realtà non leggo tantissimi fumetti perché non voglio farmi condizionare, i miei preferiti sono, per la maggior parte, giapponesi. Sono un fan sfegatato di una serie giapponese disegnata da Buichi Terasawa che si chiama Cobra, adoro tutto quello che fa Terasawa; Manara e Liberatore sempre; dei francesi che dire… sono troppi; Valentina di Crepax; Barbarella di Jean-Claude Forest; Arzach di Moebius; Akira di Otomo; Necron di Magnus, sono tutte cose diverse che per motivi diversi mi hanno sconvolto.

    Per fare il tuo lavoro, quali sono le qualità imprescindibili?
    Fare fumettista è un lavoro durissimo, perché non basta saper disegnare, richiede una serie di capacità extra, interdisciplinari, che devi conoscere e usare insieme. Devi avere ottime conoscenze di prospettiva, anatomia, composizione, regia, ritmi narrativi… Al di là di queste qualità, in assoluto, la prima è quella di sapersi divertire, avere una grandissima passione per quello che si fa. Se l’artista non si diverte in quello che fa, si vede.

    Rispetto a questo, quali sono le qualità che possiedi e quali senti che ti mancano ancora o su cui vorresti lavorare sopra?
    Vorrei migliorarmi sempre dal punto di vista tecnico perché so di avere una quantità di lacune gigantesche e non mi considero assolutamente bravo, anzi, tutti i giorni mi scontro con i miei limiti: non mi esce il mignolo, il braccio, è un continuo… disegno per migliorare, cerco sempre di imparare qualcosa di nuovo. Per quanto riguarda la passione di cui ti parlavo prima, penso di averne. Mi diverto ogni volta che disegno, altrimenti non lo faccio e basta.

    Nel tuo futuro di fumettista cosa ti piacerebbe trovare?
    Ho in mente una serie di idee a cui spero di lavorare presto, quindi, lo scoprirete a breve. Inoltre, spero di poter realizzare alcuni progetti laterali al fumetto dove presto il mio disegno a un discorso più letterario, sto cercando di lavorare con degli scrittori in modo tale riuscire a inventare qualcosa di nuovo.

    Invece, una preoccupazione?
    Onestamente non ne ho.

    Ci fai il nome di persone che conosci e che reputi interessanti, stimolanti, da conoscere?
    È difficile perché sono spesso persone che vivono all’estero, i miei maestri, come Tanino Liberatore; un altro è un artista americano che ho avuto modo di conoscere quest’anno ma che seguo dalla mia adolescenza, si chiama Mark Beachum, uno che ha fatto supereroi per un sacco di anni e ora si dedica al disegno e alla pittura: per me è uno dei più grandi disegnatori esistenti come lo è Omar Galliani, che ammiro e stimo infinitamente e che quando posso, lo ascolto sempre con devozione. Le persone che mi stimolano sono spesso persone che non fanno il mio mestiere, gli scrittori, come Isabella Santacroce che supera il pensiero e mi regala sempre cose uniche e bellissime da conservare, o i fotografi, come Dido Fontana che mi costringe a disegnare le sue fotografie per quanto sono aggressive e sensuali; a volte anche i registi come Tsui Hark che ho nominato più volte ma che sento tutt’oggi, o i musicisti, oppure come un incontro recente con una persona che non mi sento di definire un “giornalista”, anche se porta avanti una rivista autoprodotta e indipendente che si chiama Re-volver: Luca Torzolini. Lui è uno che frequento da nemmeno due mesi ma che mi sta già migliorando la vita. Queste sono le persone stimolanti, persone che rendono la tua vita, artistica o personale, migliore. Mi piace frequentare e conoscere artisti o anche persone semplici che hanno qualcosa di nuovo da insegnarmi, fuori dal mio campo, amo questo tipo di persone, anche le attrici porno, anzi, specialmente, le prostitute, i DJ  e i… senzatetto.

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    LINK:

    Il sito di Adriano De Vincentiis: http://www.sophiabd.com/

    Il Blog: http://sophiabd.livejournal.com/

    Il facebook ufficiale: http://www.facebook.com/adrianodevincentiis

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    Le foto sono di Pippo Marino


    Slideshow su Flickr


    10 thoughts on “UFO robot, fumetti e strani oggetti vibranti

    1. non c’è niente da fare: ogni volta che mi imbatto nella foto #47 vado fuori di testa.
      Tra l’altro, mi sono dimenticato che tra i gadget irraggiungibili di Spazio 1999 c’era la pistola laser. Mi piaceva soprattutto il fatto che non avesse niente dell’aggressività delle classiche pistole, tanto che per riprodurla abbastanza fedelmente usavamo una semplice spillatrice…

      1. io questa cosa che Hiroshi si trasformava nella testa di Geeg non l’ho mai capita, cioè cosa faceva, si gonfiava come un pallone, si arrotolava su se stesso come uno strudel lievitato?

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