Marco Mazzei

Marco Mazzei è ovunque. Se devo immaginare una persona più vivace, intraprendente, dinamica, poliedrica e vulcanica non ci riesco. Perché per fare un Marco Mazzei è necessario mettere insieme almeno cinque persone diverse: un musicista, un cantante, un artigiano, un artista e un gallerista (e sono sicuro che me ne sfugge ancora qualcuno). L’abbiamo visto esibirsi tempo fa con Ogni dove, uno dei progetti musicali di Andrea Gabriele, organizzare mostre nella sua “micro” Microgalleria, partecipare a una collettiva al museo MUMI a Francavilla,  tenere due personali delle proprie opere di cui una all’ex-Aurum e l’altra al Circolo Aternino. Addirittura l’abbiamo visto depositare una lastra di alluminio, accartocciata ad arte, sul fondo del fiume Alento, almeno così abbiamo visto dalle foto pubblicate su Mezzomagazine. In tutto questo, però,  non eravamo mai riusciti a scambiare due parole, almeno fino al momento di questa lunga intervista. Marco, come un folletto affabulatore, si è seduto sul suo tavolo da lavoro rivestito di erba sintetica verdissima e ha iniziato a raccontarci storie incredibili che sembrano uscite dalla Mille e una notte. Ci ha raccontato di incontri con papi, regali di mafiosi russi, concerti di piazza, gite in barca a vela e incredibili coincidenze, di quelle che ti cambiano la vita.

 

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Quali sono i campi in cui svolge il tuo lavoro?

Tutto inizia dalla musica. Ho sempre voluto fare il musicista ma mio padre pensava che non si potesse vivere solo con la musica. Forse sbagliava o forse no, non lo so dire, però mi ha sempre spinto a lavorare in qualche modo con mia sorella, o comunque a dedicarmi ad attività più “serie”. Lei ha studiato alla zecca di stato, dove ha imparato a fare gioielli – centrotavola d’argento, piatti –, e a un certo punto ha ottenuto un grosso lavoro dal Vaticano per una fonte battesimale. Lavoravamo entrambi in un laboratorio diviso a metà: in una c’ero io che cercavo di fare musica, nell’altra c’era mia sorella che, aiutata dai miei genitori, martellava in continuazione. Un disastro perché io alzavo il volume e loro martellavano ancora più forte.

 

Non erano proprio due attività che potessero convivere facilmente…

Era una vera guerra! Alla zecca di stato mia sorella ha imparato a fare gioielli a cera persa e ci ho provato anch’io. Tramite amici è arrivata la richiesta per una spilla, che non avevo mai fatto prima, ed è stato il mio primo pezzo venduto.

 

Facevi già il musicista?

Non avevo ancora firmato con Gianni Maroccolo nei CSI. Ero ancora un musicista cazzaro, facevo giusto qualche lezione di musica ai ragazzini. Col tempo però ho scoperto che intorno all’oro e ai gioielli c’era un mondo nascosto legato al riciclaggio. Lavoravo facendo abbozzi di cera persa che poi le gioiellerie fondevano per realizzare gioielli con oro di dubbia provenienza. Una volta mi è capitata una collana che pesava un chilo e mezzo, in pratica ogni pezzo era un lingotto, e lì ho capito che dovevo uscire da quel giro. In realtà ho compreso anche che per l’artigiano sconosciuto è difficile stare sul mercato dove si vendono più facilmente i gioielli firmati.
Poi, è successo che mi sono messo con una ragazza, una vera tortura. Insisteva che lasciassi la lavorazione dei metalli per dedicarmi a quella del legno. Addirittura lo metteva per iscritto in lunghissime lettere che scriveva con penne da calamaio. Di tutto questo però l’unica cosa che mi interessava era proprio la penna da calamaio e ho iniziato a farne dei modelli al tornio che poi le regalavo. Un giorno, passando davanti a una cartoleria, lei ha visto una penna da calamaio che costava 280.000 lire. Quando me l’ha detto, ho iniziato a guardare la penna in un altro modo, e sono andato in quello stesso negozio a vendere le mie penne a 200.000 lire, senza successo. Senza lasciarmi scoraggiare, sono andato in un altro negozietto, dove le ho vendute a quella cifra pazzesca e così mi sono messo a produrre penne da calamaio a rotazione. Decido di andare a Milano a vendere queste cose sulla base di un indirizzo di un architetto datomi da quel primo acquirente. Faccio una borsa di legno, ci attacco dei pezzi di rame e parto. Imbocco questa via ma non c’è la persona che cerco, perché non era la via giusta, però leggo su una targhetta “architetto” e suono. Entro e faccio “Salve, sono Marco Mazzei e faccio queste penne”. Lui le vede e se le compra. Ero incredulo e talmente gasato che continuo ad andare in giro per Milano fino all’atelier di Romeo Gigli dove, pure lì, vendo! Stava succedendo qualcosa di incredibile. Tornato a Pescara, vado al primo negozio e, guardando bene, scopro che quella penna, da cui tutto era partito, non costava 280.000 bensì 28.000 lire, insomma era stato tutto un equivoco…
Dopo questa esperienza ho continuato a realizzare oggetti e gioielli di legno, in cui inserivo anche elementi d’argento o pietre dure, per poi passare agli orologi da tavolo e da parete. Nel frattempo ho firmato il primo contratto discografico ma mio padre, che aveva capito che avevo il dono di vendere qualsiasi cosa, mi ha convinto a unire artigianato e musica in questo modo: siccome per contratto dovevo andare in giro a fare concerti, ed era tutto spesato dall’etichetta, potevo portare con me le cose che producevamo in laboratorio e tentare di piazzarle nei vari negozi che trovavo in giro.

 

Quindi, facevi il musicista nonché artigiano e rappresentante. Ma cosa producevi?

Mio padre mi aveva proposto di realizzare uno specchio con cornice e io mi ero rifiutato – che schifo, più kitsch dello specchio si muore – però lui si era abbastanza impuntato e, siccome sono sempre stato una vittima delle idee degli altri, a partire da mio padre fino alle fidanzate, ho realizzato questo specchio e l’ho portato a Reggio Emilia dove avevo un concerto. Entro nel bar del corso e chiedo quale sia il negozio più costoso della città e mi indicano un negozio d’arredamenti che si chiama Toschi. C’è da aprire una parentesi: Toschi era, o è, uno dei negozi di riferimento nel nord Italia per le aziende più importanti, è una specie di trend setter, ma io non lo sapevo. Vado e, dopo una breve trattativa, Toschi lo compra per 600.000 lire: era successa un’altra cosa assolutamente miracolosa. Quando sono tornato a casa era diventato chiaro che la mia nuova strada sarebbe stata quella degli specchi e si è innescato un nuovo lavoro, la produzione di specchi sotto mio padre che giustamente (anche se volevo fare sempre il musicista) aveva intravisto una strada, un futuro per me.  Quindi ho iniziato a realizzare specchi che poi ho proponevo nei posti dove facevo i concerti.
A Viterbo, sempre durante un concerto, ho conosciuto due fratelli. Al primo incontro nel loro negozio, di fronte agli specchi, uno mi ha detto che facevano schifo, e secondo me aveva ragione, perché si erano rovinati in macchina durante il trasporto, e l’altro che erano bellissimi. Ha vinto quest’ultimo e ha iniziato a venderli anche con una certa frequenza. Il fratello, resosi conto che potevano avere successo, mi ha proposto di venderli in Russia dove aveva dei contatti commerciali, e ho accettato. Ne riesce a vendere due a un tizio di Mosca che addirittura vuole conoscermi. Colgo la palla al balzo e gli propongo di fare anche un concerto. Lui è subito d’accordo e organizza una cosa come solo i russi sanno fare, il kitsch portato agli estremi. Terminato il concerto questo personaggio, che poi ho scoperto essere un mafioso di portata notevole, ci invita ad andare in un suo locale: un bordello a cielo aperto. Eravamo li, io e Marco Pizii, con cui suonavo. Ci diventa piccolissimo, eravamo terrorizzati, c’era una mandria di uomini seduti e donne nude che passavano e si sedevano su tutti. Alla prima occasione siamo scappati via provocando l’ira di questo magnate russo in quanto rei di aver rifiutato quello che per lui era un regalo… Grazie alla mediazione del tipo di Viterbo – non ho mai saputo cosa gli ha raccontato per placarlo – siamo tornati in buoni rapporti e invece di pagarci una prostituta ha ingaggiato una guida turistica molto preparata per fare il giro di Mosca.
Dopo Mosca le cose sono cambiate molto, perché ho acquisito la consapevolezza che questo lavoro poteva diventare redditizio tanto più che, grazie a queste prime esperienze, ho iniziato ad avere molti contatti con aziende che esponevano a Milano e da allora, praticamente, vendo in tutto il mondo. Ci sono altri due incontri che sono stati fondamentali per il mio lavoro con gli specchi: uno è stato quello con Marcello Zaccagnini perché mi ha dato fiducia e l’opportunità di eseguire uno splendido lavoro per la sua villa. Inoltre, è lui che mi ha fatto conoscere un mostro sacro della musica, Ennio morricone. Marcello è vittima delle mie telefonate su dubbi e difficoltà del mondo dell’arte e del commercio. Un vero amico e consigliere, oltre a mia madre Anna. L’altro incontro importante è stato quello con Massimo Giletti, con cui ho una collaborazione costante, e che mi aiuta nella diffusione del mio nome. Una persona splendida che ho conosciuto proprio grazie a Marcello Zaccagnini. E questa è la storia dei miei specchi.

 

Come vivevi questa tua doppia anima di musicista e artigiano?

A lungo mi sono chiesto effettivamente cosa fossi, quale strada dovessi seguire. Dato che il mercato un po’ si muoveva un po’ no, e le richieste erano random, mi domandavo se fosse così perché ero un artista prestato temporaneamente all’artigianato oppure perché ero un artigiano che non sapeva fare quel mestiere. A un certo punto ho pensato che l’unica persona che poteva rispondermi nella maniera più sincera potesse essere mio zio.

 

Tipo un oracolo?

Sì. Quando sono andato da lui, mi ha detto che non sapeva rispondere alla mia domanda ma che sapeva chi poteva dare la risposta giusta: papa Giovanni Paolo II.

 

Eh?!? Sei andato dal papa?

Questa è lunga da raccontare, dico solo che mio zio faceva parte di un’associazione che organizza incontri intorno a temi in cui si affrontano vari aspetti della cultura e della religione e io ho partecipato ad uno di questi seminari sul rapporto tra religione e musica. Fatto sta che, tramite questa associazione, ho partecipato a un incontro col papa. Teoricamente è servito, non perché abbia risposto alla mia domanda – non ho avuto modo di parlare direttamente con lui, ero lì come spettatore – ma per l’energia che aveva. Da non credente ho percepito qualcosa di estremamente potente, di elettrico. Non per questo sono diventato cattolico, però, quando sono tornato a casa mi sono detto che dovevo fare semplicemente quello che avevo in testa, senza chiedermi troppo se fossi un artista o un artigiano. Questa esperienza è stata poi il motore di tutto quello che ho fatto in seguito, dalla Microgalleria e le mostre fino alle installazioni.

 

In tutto questo però non ci hai parlato della tua carriera musicale. Ha avuto un percorso parallelo a quello di artigiano/artista, anzi, artigiano e artista?

La musica per me è ancora un veicolo per vendere specchi a prezzi sempre più alti, è il mezzo con cui posso venire a contatto con gente famosa e con persone che possono permettersi di spendere.
La storia è questa: dopo aver firmato con i CSI, il mio gruppo si è sciolto, tuttavia Maroccolo mi ha chiesto di rimanere con lui come arrangiatore per lavorare a molti progetti. Nel suo studio capitavano persone più o meno in vista, poteva capitare Rais, Renga, persone con cui ti fermavi a cena, ci conoscevamo e, tra una cosa e l’altra, facevo vedere i miei specchi che poi vendevo. Sempre grazie a Gianni Maroccolo sono andato a lavorare da Lorenzo Jovanotti dove ho conosciuto molti musicisti, i turnisti di tutti i più importanti musicisti italiani, e tutti alla fine parlavano dei miei specchi, una specie di passaparola che funzionava fuori dai canali classici.

 

Come sei arrivato ai CSI?

Sono partito da questo presupposto: fare il musicista, o fare comunque qualcosa di alternativo, in una città piccola è vincente. Se fai l’alternativo in una città grande, sei uno sfigato, se lo fai in una città piccola sei riconoscibile. Volendo fare musica non ho puntato su pop o rock, ma sulla musica d’ambiente, un genere che nessuno praticava e pochissimi conoscevano. Potevo permettermi di fare le cose più assurde e farle ascoltare anche nei locali in cui si faceva rock. Arrivavo con otto tastiere – ero una specie di Jean Michel Jarre pescarese –, e facevo una musica veramente pesante, una rottura di palle stratosferica. Il singolo, che secondo me doveva rendermi riconoscibile alla gente, si intitolava Interferenze e durava 20, interminabili, minuti. Ho rotto talmente tanto le palle con questo fatto della musica d’ambiente che a un certo punto è iniziata a girare la voce che fossi bravo. Tramite un ragazzo che lavorava in un negozio di dischi, ho saputo che un gruppo, che stava per firmare un contratto con i CSI, aveva bisogno di un tastierista e con loro ho iniziato a preparare dei demo. Quello è stato l’inizio di tutta la mia musica.

 

Come si chiamava il gruppo?

Divine Toys. Poi, Maroccolo ebbe l’idea di togliere Toys per cui andavamo in giro con questo nome che suonava equivocissimo…

 

Hai lavorato anche con altri gruppi e singolarmente?

Dopo questa prima esperienza Maroccolo ha proposto a me e a Marco Pizii – i Rramigliéte blonda –, di produrre un disco che però non ha mai visto la luce a causa della crisi che ha investito tutta l’industria discografica. Ho prodotto insieme a Marco Pizii almeno 80 pezzi – sono molto veloce anche perché, se nel giro di due giorni non esce il pezzo, vuol dire che non funziona – ma non se ne è fatto più niente. In compenso Maroccolo ci ha consigliato di partecipare a un concorso per radio RAI il cui premio era la partecipazione al Fiberfib, il festival internazionale di Benicàssim, vicino Valencia, e noi l’abbiamo vinto. Ora, forse, il FIB ha perso un po’ di credito ma, all’epoca come vicini di camerino avevamo Blur, Placebo, Radiohead e Moby.

 

E hai venduto qualche specchio?

Nooo, lì ero piccolissimo, ero terrorizzato… è stato grande, ma abbiamo vinto un sacco di altra roba, siamo andati a suonare anche al Jamming Festival.

 

Questo si è tradotto anche in successo a livello commerciale?

La mia carriera nella musica è stata sempre marginale. La musica è veramente difficile, non si va né in classifica né si vendono tante copie, però segni il passo, fai in modo che la gente sappia di te, e infatti i giornalisti scrivevano moltissimo. Penso che l’impronta forte sia stata il fatto di avere la coscienza che quello che facevamo fosse vincente. Anche gli specchi, quelli più costosi, li ho venduti quando ho dimostrato che non avevo nessuna necessità di venderli. L’atteggiamento è quello.

 

Che tipo di formazione hai avuto, e ti è stata utile?

La formazione è avvenuta sempre sul campo, nessuno, per dire, mi ha insegnato a fare la musica, come nessuno mi ha mai insegnato a modellare la cera. Sono autodidatta sotto ogni aspetto.

 

Tra l’altro, non ci hai parlato delle tue ultime installazioni artistiche.

Quelle nascono dalla facilità con cui nella musica elettronica, grazie ad alcuni software, è possibile unire suoni, video ed eventi. In questo è stato di fondamentale aiuto l’apporto di Andrea Gabriele, un musicista con cui abbiamo progettato un’installazione esposta a Milano, durante il Salone del mobile, in cui una goccia, cadendo in una vasca piena d’acqua, attivava suoni e video.
Con Andrea ho appena firmato un contratto discografico per un progetto dance che si chiama AGIO, a breve ci sentirete nuovamente!
Un’altra cosa che reputo una installazione artistica è la mia Microgalleria.
Una piccola stanza, un deposito al piano terra di pochissimi metri quadri dove espongono gli artisti in una modalità molto amichevole per sole due ore (il buffet si fa sul pianale della mia Ape Piaggio). Ecco, credo che Microgalleria sia di per sé un progetto artistico, oltre gli artisti che espongo.

 

Rispetto a tutti i tuoi campi di azione, quali sono i progetti o le opere cui tieni di più?

Devo premettere che non ascolto musica, nemmeno la mia musica. Una volta uscito, non ascolto più il disco, sia perché per produrlo l’ho dovuto ascoltare infinite volte, sia perché non sono attaccato a ciò che faccio. Per questo è difficile che ci sia qualcosa che ho fatto in passato a cui tengo in maniera particolare. Forse, pensandoci bene, tengo molto alla scultura che ho inserito nel giardino dell’Aurum (un autoritratto) che è stata voluta dal comune, mi ha dato una grande emozione perché è qualcosa che finalmente diventa “quasi per sempre”. C’è poi un’altra cosa a cui sono legato, ma è un’esperienza, un momento che ho vissuto: quando sono salito sul palco del Primo maggio. È stato allora che ho capito l’importanza che il pubblico ha durante un’esecuzione. In Spagna, durante il concerto dei Placebo, ho provato una sensazione simile ma come spettatore che stava sul palco. Ho percepito quella cosa che posso definire solo come “il vento”, una pressione che arriva dal pubblico, un’energia, una potenza, che si scontra con una forza altrettanto potente che viene dalla musica.
Quando sono salito sul palco ed è entrato Giovanni Lindo Ferretti, una persona che faceva impressione, quasi come il papa, c’è stato un boato e ho sentito un’energia pazzesca. Toccava a me la prima nota di un suono molto basso e il godimento è stato fortissimo perché ho avuto la possibilità di rispondere con l’amplificazione a quello che stava provenendo dal pubblico. Il volume dell’amplificazione era talmente alto che mi ha spostato in avanti e, ti posso assicurare, ho sentito la bellezza del mondo. Ho completamente perso la testa e il resto del concerto l’ho passato a saltare come un matto.

 

Chiudiamo con un po’ di domande in serie. Quando hai bisogno d’ispirazione cosa fai?

Penso di aver affinato col tempo una tecnica. Innanzi tutto, suono e faccio cose solo se ho una meta reale: non mi troverai mai a fare jam session o a cazzeggiare. Il rispetto che ho per le cose importanti è così totale che non ammetto di perdere tempo. Quando devo fare qualcosa, perché sia buono, mi devo fermare, concentrare, e a un certo punto, sentire che è arrivato il momento per agire. Questo, per me, corrisponde all’ispirazione. È un po’ come mettersi alla ricerca, lasciare che lo sguardo vaghi finché non si scova quella minuscola e scintillante pallina e, quando si trova, è fatta.

 

Siti preferiti?

Create Digital Music e Galileo.

 

Riviste?

Nessuna.

 

Libri?

Non leggo molto. Il libro che mi è piaciuto di più è Il maestro e Margherita di Bulgakov.

 

Tv?

I Simpsons e Tg3 Leonardo.

 

Cinema?

L’ultimo di Woody Allen, Midnight in Paris, mi è piaciuto moltissimo, un altro è stato This must be the place di Paolo Sorrentino. Se penso a film meno recenti, il mio preferito in assoluto è Il marito della parrucchiera di Patrice Leconte.

 

Musica?

Tutto il versante della musica tedesca, quelli di Morr Music, gruppi tipo Lali Puna, e poi Al Bano, l’incarnazione del vero canto italiano.

 

Città in cui vivresti?

Oslo mi è piaciuta molto, anche Barcellona, ma non so se ci vivrei. Anche se l’ho vista poco, scelgo Oslo per un motivo: gli artisti hanno un sacco di spazio e finanziamenti.

 

Per fare il tuo lavoro quali sono le qualità che servono? Quali possiedi e quali vorresti possedere?

Credo di avere un buon gusto estetico, un ottimo equilibrio. Percepisco quando qualcosa funziona e quando no, quando le dimensioni, i rapporti, sono quelli giusti. Inoltre, penso di essere “pop”. Non che sia pop quello che faccio, ma in qualche maniera riesco a capire – e non te lo so dire come – cosa piace alla gente. Posso affermare che raramente qualcuno è uscito da qui senza quello che voleva, l’ho sempre “fregato”, nel senso che ho sempre intuito quello che stava cercando.

 

Una qualità che ti manca?

Vorrei raggiungere questo equilibrio anche nell’arte. Non mi reputo un artista, non lo sono, faccio l’artigiano, ma le installazioni mi hanno fatto capire che possono inserirsi bene nel canale dell’arte. Nella musica, mi riferisco a quella pop, è diverso: non credo che il musicista sia un artista, non credo che la musica pop sia arte.

 

Cos’è, artigianato?

Dicendo questo forse qualcuno vorrà picchiarmi, però, fare musica include un grande lavoro di rifinitura, la ricerca continua dell’accordo giusto per far arrivare il ritornello. Sono tecniche di arrangiamento, meccanismi che fanno perdere molta dell’ispirazione originale, di quella pallina di cui parlavo prima. Per questo dico che non mi fido dei musicisti in genere, almeno di quelli medi. Ho anche litigato con Lorenzo [Jovanotti], perché in fondo, io l’ho riconosciuto e lui ha riconosciuto me. Quando ho a che fare per lavoro con qualcuno, so se sta facendo un lavoro sincero o la puttana. Molti musicisti, ovviamente non tutti, sono puttane, e quando li vedo tutti sostenuti, so che è solo esteriorità. Quando fai il musicista, e ti trovi di fronte alla necessità di dover arrivare a un certo numero di ascoltatori, adotti delle scorciatoie, dei compromessi, che non ti fanno essere più te stesso. Nell’arte, invece, anche quando mi trovo di fronte ad artisti consolidati, seri, percepisco una specie di sincerità che non trovo nei musicisti.

 

Cosa ti piacerebbe fare nel tuo futuro?

Mi piacerebbe tornare a fare concerti grandi.

 

Invece, una preoccupazione?

Qualche giorno fa sono andato vicino a cadere in una depressione profonda, poi ne sono uscito, ma in quel momento mi sono sentito crollare. Ero in barca a vela e, a un certo punto, mi sono accorto di essermi allontanato troppo dalla riva. Quel senso di ansia e insicurezza era, in realtà, un riflesso di quello che sto provando nella vita. Mi sono accorto che tutto il mio sistema di vita, i miei averi e le mie spese – una moto, un’Ape, una macchina, tre affitti – si basano ora unicamente sulla produzione degli specchi e, se dovesse andar male in futuro, mi ritroverei a terra. Ho sempre vissuto con l’idea che se va male faccio piano bar. Canto bene, ho una bella estensione, quindi me la gioco così, ma ho capito che come valvola d’uscita non basta più.

 

Cosa ti ha fatto uscire da questa botta di depressione?

Mi ha fatto rimettere in carreggiata tornare a guardare il numero di ordini che ho da sbrigare, e quindi capire che almeno per un altro anno c’è autonomia.

 

Ci fai il nome di persone che ti piacerebbe farci conoscere?

Sicuramente Andrea Gabriele, Enzo De Leonibus, e poi Ezio Budini del Teatro immediato. Un altro che sarebbe interessante conoscere, e non è molto noto nonostante abbia fatto grandissime cose, è Lorenzo Tommasini, in arte Moka. Fa il fonico, sta in provincia di Arezzo, ed è bravissimo. Ha lavorato con i più grandi, ed è grazie a lui che ho fatto la musica per l’inaugurazione dello stadio in cui si terranno gli europei del 2012 in Ucraina.

 

LINKS:

www.marcomazzei.org

 

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Le foto sono di Pippo Marino e sono state scattate nel laboratorio di Marco Mazzei a Pescara.
Le ultime 15 sono state scattate durante la mostra personale di Marco Mazzei tenutasi dal 17 dicembre 2011 all’ 8 gennaio 2012 presso il Circolo Aternino a Pescara
slideshow su flickr


21 thoughts on “Marco Mazzei

    1. ne abbiamo altre due in preparazione, ne vedrete delle belle!
      OT preparatevi che quando veniamo vogliamo intervistare qualche CCG trentino!

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