La forza negli occhi

    Per arrivare a casa di Sergio Camplone si deve andare con l’ascensore all’ultimo piano e poi fare ancora una rampa di scale. Quando raggiungiamo il pianerottolo ci accoglie un pezzo di cielo e un panorama mai visto. Pescara osservata così dall’alto sembra compatta, una distesa di tetti dalle tonalità più diverse accese dalla luce impietosa del sole d’estate. Non sembra di essere sull’Adriatico ma in una città sul Bosforo e i pochi campanili, da lontano, potrebbero essere scambiati per minareti.

    La casa è un micro-attico a misura di Sergio: essenziale negli spazi, vintage negli arredi, abbagliante nella luce. Ci racconta di esserne innamorato appena ha visto questi locali che si aprono letteralmente sul cielo. È strano, con Sergio ci conosciamo da un po’ di tempo, anche se ci incontriamo in modo fortuito e casuale, ma non avevamo mai avuto prima di ora l’occasione di parlare con attenzione del suo lavoro di fotografo, eppure di cose, ne ha veramente tante da dire.

    —————————————————————————————-

    Quando è iniziata la tua passione per la fotografia?
    Fino al ’96 circa, e per 12 anni, ho suonato la batteria in un gruppo, i Reparto 6, quella era la mia unica passione. Dopo anni, ho capito che non riuscivo a vivere di musica e ho smesso. Eravamo a cavallo tra gli anni ’80 e i ‘90 a Pescara… puoi capire che la cosa poteva essere alquanto ardita.
    Poi un giorno, per caso, mi è capitata tra le mani la macchina fotografica di un amico e ho iniziato a scattare: insieme alle fotografie, è scattata la magia. Prima di allora la fotografia per me non esisteva.
    Ho iniziato con un piccolo corso qui a Pescara: …si parlava di cinema, teatro, letteratura e molto poco di fotografia. La cosa era stimolante, ma continuavo a chiedermi quando avremmo affrontato ciò che più mi interessava. Ho capito, poi, che quella era la strada per conoscere meglio la fotografia nel suo insieme. Terminato il corso, ho chiesto al docente, poi diventato mio amico, Toni Giangiulio, di indicarmi una scuola di fotografia e lui mi ha consigliato di andare a Milano alla Bauer. Ho fatto la selezione, superando due esami, uno scritto e uno orale, e sono entrato.

    Era una scuola impegnativa?
    Abbastanza, c’era una classe l’anno da 20 persone a fronte di circa 200 domande d’ingresso. Doveva essere molto selettiva, del resto era l’unica scuola pubblica e gratuita in Italia. Ho deciso di farla perché fondamentalmente ero in crisi con la musica.

    Quanto è durato il corso?
    Tre anni.

    Pensi che sia stato utile?
    Certo, anche se terminati gli studi alla Bauer, non ero proprio un fotografo, ma lavoravo solo su progetti di ricerca. A volte molto lontano dalla fotografia comunemente percepita.

    Cos’è un progetto di ricerca in fotografia? Sai, noi siamo abituati a quelli di architettura…
    Consiste nel mettere insieme un’idea e nel produrla visivamente, nel creare un percorso che ti conduce come atto finale a una mostra e/o una pubblicazione. Avere un progetto ti permette di non scattare a caso, ma di finalizzare ogni scatto al racconto di un’idea, una storia, un luogo. Uscito dalla Bauer ho fatto fatica a inserirmi nel mondo del lavoro, perché con l’impostazione che avevo, potevo fare solo l’artista. Ci provo, continuo a farlo, ma vivere solo di arte è più difficile che vivere solo di musica, e per non cadere dalla padella alla brace, ho cercato un campo commerciale che fosse adatto alla mia formazione. La Bauer era una scuola molto incentrata sul paesaggio, in particolare sulle trasformazioni del paesaggio urbano e, quindi, lavorare con gli architetti e con le committenze pubbliche è stato per me naturale.

    A proposito, com’è lavorare con gli architetti?
    A volte complicato, però in compenso è molto stimolante, abbiamo visioni diverse sulla città, per esempio, ma che messe insieme, spesso creano risultati sorprendenti.

    Ti chiedono mai di rendere l’architettura più accattivante, più vendibile, attraverso le fotografie?
    Alcuni sì, ma la maggior parte delle persone con cui lavoro apprezza il mio modo di interpretare l’architettura e, quindi, si fida, diciamo così.

    Qual è l’architettura, tra quelle che hai fotografato, che ti è piaciuta di più?
    Generalmente amo sempre di più l’ultimo progetto a cui sto lavorando e adesso sono concentrato sulle cave pugliesi per una mostra che aprirà a ottobre. Per me quella, adesso, è l’architettura più bella: un’architettura naturale fortemente antropizzata, con una trasformazione fortissima del paesaggio. Concettualmente potrebbe essere la fine o l’inizio del mondo, è un territorio così strano, arso, un inferno pieno di luce.
    Se, invece, vogliamo parlare di architetture nel senso classico del termine, mi verrebbe da dire l’edificio dell’ex Aurum. Con una committenza pubblica, ho seguito tutto il suo processo di riconversione, con un progetto fotografico e un video documentario.

    Inoltre, è un bellissimo edificio con una storia lunga e tormentata…
    Ho vissuto per due anni come un operaio del cantiere, conosco tutti gli anfratti, tutte le stanze chiuse dove è vietato l’accesso, l’ho visto rovesciato come un calzino.

    Com’è sapere che ha successo soprattutto come sala comunale per i matrimoni?
    Provo un’amarezza infinita, questo la dice lunga sullo stato di cose della nostra città.

    Come fotografo, è importante innamorarti di quello che stai riprendendo o è un rischio che bisogna evitare?
    Penso sia importante provare una specie d’innamoramento, anche se, col tempo, impari a razionalizzare questo sentimento, cosa di per sé un paradosso. All’inizio mi muovevo con più passione, ora, soprattutto se lavoro su committenza, sono il più razionale e lucido possibile. Se faccio lavori personali per progetti o mostre allora l’innamoramento deve esserci per forza.

    Guardando le tue fotografie, mi sembra di leggere un’attenzione particolare per la luce che acquista una qualità, mi verrebbe da dire, ascetica. È un modo per sublimare l’empatia col luogo, un modo per rendere quasi trasparente la realtà?
    Ti svelo un segreto, che poi riguarda più che altro uno stato d’animo. Una volta, mentre guardavo e aspettavo la luce per lo scatto, mi sono trovato in una situazione, non so spiegare… e come se riuscissi a vedere il colore dell’aria. È stata un’emozione intensa e, nello stesso tempo pacificante. Era molto vicina alla sensazione che provavo nei concerti dal vivo, quando l’empatia col pubblico e con gli altri musicisti è tale che ti sembra di galleggiare nell’aria. Forse è per quello che pensi a qualcosa di ascetico quando vedi le mie foto, ma non credo ci sia niente di mistico o contemplativo. Non so esattamente perché uso questo tipo di luce, se vogliamo è il risultato di uno stato di grazia, di benessere.
    Posso dire però che la luce per me, è un elemento fondamentale, “chiarificatore” direi.
    A volte, questo elemento mi aiuta a mistificare la realtà, a creare un senso di attesa. Un’attesa che ci rende consapevoli di quello che stiamo realizzando, la volontà di accogliere un mutamento di cui siamo artefici e portatori, perché è importante capire che i luoghi della contaminazione non sono lontani, “i luoghi della contaminazione siamo noi”.

    Cosa pensi di tutti quei fotografi che, invece, lavorano sull’immediatezza?
    Credo che rappresenti uno dei linguaggi più contemporanei della fotografia perché legato alla frammentazione della nostra realtà e al nostro modo di vedere e percepire le cose e le persone. È come guardare il paesaggio attraverso il finestrino di un treno: vedi frammenti di vite, che poi ricomponi nella mente. Mi piace questo linguaggio. I miei preferiti rimangono i russi e i nord/europei. Hanno un linguaggio freschissimo, qualità indispensabile per avere questo tipo di visione.
    Il mio approccio è più documentaristico, anche perché mi sono formato attraverso lo studio della scuola tedesca dei coniugi Becher

    Quelli dei serbatoi di acqua e degli edifici industriali?
    Esattamente, queste strutture industriali riprese con serialità, una ripetitività che porta anche alla cancellazione delle stesse… Poi c’è tantissima fotografia americana, Diane Arbus, che ho adorato, a cui ho dedicato la tesi…

    Nella Arbus c’è anche un forte senso del sociale…
    La mia fotografia ha un aspetto duplice perché sono un documentarista che si occupa di paesaggio urbano, e il paesaggio urbano è paesaggio sociale. Mi interessa il modo in cui le trasformazioni del paesaggio urbano riflettono i nuovi comportamenti sociali.

    Dal punto di vista tecnico la fotografia è uno dei campi che più ha vissuto il passaggio al formato digitale. Tu cosa usi e hai delle preferenze?
    Uso sia la pellicola che il digitale, a seconda del progetto. Ho iniziato lavorando in pellicola e questo mi ha permesso di essere più riflessivo. Non è una questione di costi, anche se c’è ovviamente una componente economica, quanto piuttosto una forma mentale che ti porta a riflettere prima dello scatto. Questo approccio lo adotto anche con la digitale, facendo gli scatti necessari.
    Non sono contrario al digitale, anzi, risolve un sacco di problemi e non vedo l’ora che raggiunga per alcune cose la pellicola, così la eliminerò del tutto. Per la stampa, da tempo sono passato ai pigmenti di colore. Il negativo però, diventa una sorta di feticcio, è una cosa materica, una matrice che puoi recuperare anche fra vent’anni. Questo mi piace assai!

    Quali sono i tuoi gusti in campo fotografico, cosa ti piace di più al momento?
    Da un po’ di anni preferisco la fotografia nord-europea (scandinava,tedesca) e russa, però vado a periodi. Due anni fa ho avuto una sorta di blocco per il paesaggio e l’architettura e per un anno intero non ho scattato niente, intendo niente che non avesse a che fare con le committenze. Una sorta di rifiuto per il paesaggio, non mi piacevano più i miei lavori e, così, rischiavo di compromettere anche la fotografia di architettura commissionata. Ho cercato di guardare altro, iniziando un progetto sul ritratto ambientato, cosa difficilissima perché ti confronti con una storia infinita e per un po’ ho spostato la mia attenzione sulla “psicologia privata e individuale”. Ero interessato alla dimensione e alla tensione emotiva. Attraverso questo progetto sono riuscito a “ripulirmi” lo sguardo per tornare a sentire il paesaggio. Ora sento di avere di nuovo la freschezza indispensabile per fotografare le città contemporanee…

    Cosa è successo che ti ha fatto bloccare?
    Non avevo stimoli e, di conseguenza, non riuscivo a vedere.

    Il fatto di volgere lo sguardo altrove ti ha permesso di ritornare ai tuoi temi più cari con nuove energie…
    Quello sul ritratto è un progetto incentrato su una dimensione e una tensione emotiva, personale, che è l’opposto di quello che facevo prima. È come se mi fosse tornata la forza negli occhi: mi piace quello che vedo.

    Per un fotografo è importante il momento della mostra?
    La mostra è la chiusura di un progetto, merita un’attenzione particolare, è un atto di arroganza “costringere” a vedere quello che hai fatto… ma necessario.

    Però è anche un momento di confronto, non solo di gratificazione.
    Sicuramente, se non hai confronti non cresci, e il tuo sguardo invecchia prima di te!

    Tra i progetti che hai fatto ce n’è uno a cui tieni in maniera particolare?
    Uno dei primi che ho fatto, un laboratorio all’interno di Multiplicity.
    Multiplicity è una sorta di collettivo al cui interno figurano architetti, filmmaker, fotografi, artisti, sociologi, urbanisti… un pool di lavoro multidisciplinare nato per analizzare le trasformazioni del paesaggio urbano europeo. Il laboratorio in questione, aveva lo scopo di analizzare le trasformazioni della stazione centrale di Milano, che di lì a poco sarebbe stata ampliata e cambiata. Il mio lavoro si è concentrato sul tronco nord-ovest, il binario che taglia la città verso la periferia nord-ovest di Milano. Questo è stato il primo progetto che mi ha permesso di lavorare con personaggi come Francesco Jodice, Armin Linke, Stefano Boeri, Gabriele Basilico.

    Tra i tuoi scatti ce n’è uno in particolare a cui tieni?
    Non c’è e non c’è mai stato. Al contrario, tengo molto alle storie che mi hanno portato a fare quella foto. La fase che più mi interessa è quella che precede lo scatto, non tanto l’immagine in sé: l’avvicinarsi al soggetto, al luogo, al paesaggio, le storie che accadono prima dello scatto, la ricerca insomma… quello è importante.

    Quindi, per te, la fotografia è una sintesi di un lungo processo: racconta un mondo attraverso un’immagine stampata su un cartoncino di pochi centimetri quadrati?
    Un mondo che è soprattutto interiore, perché la fotografia è una sorta di viaggio all’interno di se stessi.

    Quando hai bisogno di ispirazione cosa fai?
    Giro in vespa cercando di perdermi.

    Come Nanni Moretti in Caro diario?
    Non so se lui cercasse ispirazione… io guardo, mi distraggo e rischio di prendere pali…

    Consigliaci un sito.
    Dipende, per quanto riguarda le informazioni mi rapporto ancora molto con la carta, L’espresso, La repubblica, L’internazionale, mi piace quando ti rimane l’inchiostro sulle dita. Per il resto, dipende molto da quello che sto facendo, vado alla ricerca di quello che mi interessa.

    Una rivista che ti piace leggere?
    Quelle che ti ho appena detto. Riviste d’arte non ne compro, nemmeno di fotografia. Mi piacciono i cataloghi di mostre ma costano tantissimo, e ne compro pochi…

    Libri?
    Più che un libro, ti posso parlare di generi. Mi piacciono molto i “romanzi di anticipazione”, come quelli di Philip Dick, Bruce Sterling. Mi piace molto Ballard e in particolare Il condominio, l’ho trovato esilarante quanto agghiacciante. Poi saggi sulla percezione delle città contemporanee.

    Tv?
    Programmi d’approfondimento, Primo Piano, Gabanelli…

    Cinema?
    Da ragazzino il mio regista preferito era Cronemberg, tuttavia il mio film favorito in assoluto è Blade Runner. Mi piacciono molto anche Antonioni, Wenders, vado un po’ a periodi.

    La città in cui vivresti?
    Direi Pescara, un’alternativa sarebbe Berlino, Genova , o anche Lecce. Di questi tempi mi sta incuriosendo la Spagna, in particolare mi affascina il territorio in corrispondenza dello stretto di Gibilterra dove vorrei fare un lavoro.

    Musica?
    La musica è stata una parte importante della mia vita e, come spesso accade con i grandi amori, quando finisce, finisce.
    Per anni ho ascoltato radio, solo parlato. Adesso sono tornato al mio primo amore, il noise.

    Fotografo preferito?
    Ce ne sono tanti, durante gli anni della formazione, tra quelli americani ricordo: Diana Arbus, William Eggleston, Stephen Shore, Robert Frank. Poi la scuola tedesca dei coniugi Becher: Andreas Gursky, Thomas Ruff. Jeff Wall, che credo sia canadese e tra gli italiani, non posso non citare Luigi Ghirri e i diversi autori della ormai storica scuola di paesaggio italiano, Olivo Barbieri, Guido Guidi, etc.. e tra i più giovani Armin Linke, Francesco Jodice ma il mio preferito, per un po’, è stato Philip-Lorca di Corcia, americano.

    Quali sono le qualità fondamentali per fare il tuo lavoro, quali pensi di avere a quali, invece, vorresti avere?
    Per fare il fotografo, nel senso più stretto del termine, ci vuole tanta pazienza, saper guardare e immedesimarsi nei luoghi. Per quanto riguarda l’aspetto più pragmatico ci vuole molta costanza, cosa che a me manca.

    Se pensi al tuo futuro cosa ti piacerebbe trovare?
    Un superattico pieno di sole.

    Già sei in un superattico pieno di sole…
    Questo è un “mini” attico…

    Una preoccupazione?
    Non riuscire a vedere come vedo adesso, perdere la vista, non saper guardare, anche perché non saprei cos’altro fare.

    Fai il nome di tuoi amici che vorresti farci conoscere.
    Massimo Camplone, abbiamo lo stesso cognome, ma non siamo parenti.
    Un fotografo molto paziente con un archivio sterminato che da poco sta portando alla luce, e non possiamo che esserne felici; Emanuela Barbi, per la sua sterminata curiosità verso le cose e le persone; Claudia Ferri, una fotografa che mi incuriosisce per la freschezza dello sguardo. Infine un mio grande amico artista di Milano, Simone Schiesari, che con la sua immensa cultura, non smetterei mai di ascoltare.

    —————————————————————————————-

    Link:

    Sergio Camplone
    http://www.warehouseart.it/html/it/artisti/artista03.shtml

     

    foto di Pippo Marino, vai allo slideshow su flickr


    20 thoughts on “La forza negli occhi

      1. non mi dire che è un docente pescarese di area romana il cui nome inizia per F e il cui cognome inizia con G?????

      2. si quelle sono le prime serie degli anni ’80… io preferisco “mario”
        ma… è davvero lui? veramente? cribbio!

    1. in qualità di FAN di sergio camplone mi complimento: bellissima intervista!
      (in questa simpatica rubrichetta comincia a sentirsi il bisogno impellente di intervistare qualche fanciulla… o sbaglio?!?! )

      1. sii paziente, che poi le femminucce arrivano.
        Tanto per tenerti sulle spine, l’ordine di pubblicazione delle prossime interviste sarà:
        maschietto
        maschietto+femminuccia
        femminuccia
        maschietto+femminuccia

    2. Confermo che va in giro con la vespa.
      Qualche giorno fa l’ho incontarto sulla nazionale a francavilla e stavo per investirlo perchè si era persoooooooo:) fuma di meno:)))))

    Rispondi a Eviliano Annulla risposta

    Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

    Ricevi un avviso se ci sono nuovi commenti. Oppure iscriviti senza commentare.