Il sentiero degli dei

    Questo libro, forse un po’ troppo pomposamente intitolato a divinità imprecisate, in realtà è stato per me un crocevia. Un punto in cui molte strade hanno trovato intersezione. Una strada d’arrivo è stata l’intervista a Dario D’Alessandro in cui lui stesso nominava questo libro come uno dei suoi preferiti, un’altra è la presenza di una citazione di de Certeau tratta da L’invenzione del quotidiano, un libro che ho usato come mantra in questi ultimi mesi e che continua a stupirmi e incuriosirmi ogni volta che ne sfoglio una pagina. Un’altra strada, ancora, porta il nome di H.D. Toreau, il quale con suoi tanti scritti e, in particolare con il suo saggio Camminare, rappresenta una specie di guida spirituale per tutti coloro i quali fanno del camminare una forma di conoscenza della natura e del mondo prim’ancora che una forma di spostamento.
    Lo stesso libro, in realtà è un crocevia, un esperimento in cui si intersecano ibridandosi più generi letterari: inizia come racconto, si sviluppa come raccolta di storie del passato e mantiene come sottotraccia continua e presente un monito contro le operazioni speculative che sono dietro la costruzione del tratto della TAV Bologna-Firenze.
    Il sentiero di cui si parla nel titolo è quello che porta a piedi da Bologna fino a Firenze e le storie che racconta sono quelle dei personaggi che hanno lasciato una traccia nella storia dei luoghi attraversati.
    Potrebbe essere un racconto di viaggi senonché passato e presente si fondono continuamente e rivelano come il paesaggio sia lo spazio della nostra memoria condivisa, a patto di riuscire a saperla ancora leggere e interpretare.
    Alcuni appunti:

    «Quando cammini, tu sollevi una gamba e sposti il baricentro in avanti, fuori dalla base d’appoggio.
    Fai tutto quello che serve per cadere, e cadresti, se non fosse che all’improvviso ti puntelli, appoggi il piede e subito ti sbilanci di nuovo. È l’unico modo di spostarsi adottato dall’uomo che si basi su una perdita d’equilibrio: spingere il centro di gravità oltre il limite di sicurezza. Senza questo, un vero pellegrinaggio non comincia neppure».”

    Qualsiasi cammino, anche il più breve inizia con la rottura di un equilibrio, un mettersi in discussione che inizia dallo sbilanciarsi in avanti e nell’accettare il rischio di cadere come la molla che fa agire.
    Ogni passo è una sfida e un’incognita.

    Sulle Alpi, nel fusto dei larici, si trovano ancora le cicatrici causate dall’eruzione del vulcano Katmai, sulle isole Aleutine, in Alaska, avvenuta il 6 giugno 1912, quando tonnellate di cenere invasero il cielo e velarono il sole per molte settimane.
    Cerchi irregolari e decentrati sono la firma sghemba di frane, vento, erosioni, che fanno crescere gli alberi storti e ricurvi.
    Alluvioni e incendi lasciano sgorbi nella grafia vorticosa che incide il durame, e segni evidenti nell’aspetto della pianta.
    Come i cerchi che si allargano sulla superficie di una pozza, dove ciascuno passa al successivo la spinta del sasso, così ogni anello del tronco influenza quelli che lo seguono, e anche sulla corteccia spuntano i segni di antichi cataclismi, il cui ricordo è ormai custodito nel cuore della pianta.
    Poi arriva il vento, passa la mano tra i rami, e le memorie degli alberi diventano suoni, per giungere all’orecchio di uomini lontani, incapaci di comprenderli. […]
    Se tu sapessi ascoltarli, Gerolamo, potresti sentire un’orchestra di faggi suonare le ballate della Grande Galleria, che a quanto dicono passa proprio sotto di loro, dentro la montagna che hai di fronte, a cinquecento metri di profondità.
    Ottanta cerchi fa, l’acqua delle sorgive ha registrato le vibrazioni della roccia, causate dall’esplodere delle cariche e dalle voci dei minatori. Le sorgive hanno alimentato i ruscelli e l’umidità dei ruscelli ha nutrito gli alberi. Terra e radici hanno succhiato la memoria dell’acqua e con l’aggiunta di sali minerali l’hanno trasformata in linfa. I vasi dello xilema hanno aspirato la linfa verso l’alto e il legno ha assorbito nutrimenti e ricordi, per poi tradurli nella sua lingua di nodi, rami e biforcazioni, che il vento ora legge e trasmette, come la puntina di un vecchio giradischi sui solchi del vinile.
    […]
    Se la capissi, Gerolamo, questa musica d’acqua e di legno, di terra e di vento, se tu la sapessi ascoltare, distingueresti il suono dei rami incurvati da un’esplosione di gas, il fruscio delle fenditure prodotte sulla corteccia dallo scoppio delle mine, il fischio leggero dei pensieri di chi è morto là sotto.
    Il fumo dei corpi bruciati ha infiltrato le rocce e la terra, scorie grigie simili a cenere hanno inquinato la linfa dei faggi, un tumore grosso come un melone è fiorito sulla corteccia, ottanta cerchi fa, e ancora la deforma e produce il suono che non riesci a sentire, confuso con tutti gli altri, il sibilo acuto degli ustionati.
    Ed è questo loro mescolarsi che rende così difficile decifrare le dendrofonie raccontate dal vento. I suoni si sovrappongono, non seguono l’ordine del tempo come i cerchi dentro al fusto e i solchi sul vinile. Se anche tu riconoscessi il timbro grave, da controfagotto, prodotto dal vento su una piaga del tronco, causata dal calore di un incendio sotterraneo, non potresti lo stesso datare l’incendio, dire se è scoppiato la settimana scorsa o cent’anni fa. Per farlo dovresti segare l’albero, o prelevarne un campione con un succhiello di Pressler, e da quello interpretare gli anelli.”

    Gli alberi come sistemi di memorizzazione degli eventi passati, i tronchi segati come vinili da riprodotti e amplificati dal vento tra le foglie. Dendrofonia è un termine che non ho trovato nel vocabolario. C’è dendrofobia (la paura degli alberi) o dendroforia (le cerimonie greche, e poi romane, dedicate a Dioniso, Demetra e Cibele in cui venivano portati in processione rami d’albero) ma dendrofonia allude al suono generato dagli alberi. Un canto che racconta anche eventi nascosti agli occhi perché avvenuti sotto terra.

    A nota di una lunga parte dedicata al processo Cavet e alla presenza di impianti eolici sugli appennini toscani il protagonista Girolamo fa queste riflessioni:

    Secondo la sentenza 367/2007 della Corte Costituzionale, citata dal pubblico ministero Gianni Tei nella requisitoria del processo Cavet: Il concetto di paesaggio indica la morfologia del territorio, riguarda cioè l’ambiente nel suo aspetto visivo. Ed è per questo che l’art. 9 della Costituzione ha sancito il principio fondamentale della “tutela del paesaggio” senza alcun’altra specificazione. In sostanza, è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale. Si tratta peraltro di un valore primario, e anche assoluto, se si tiene presente che il paesaggio indica essenzialmente l’ambiente. L’oggetto tutelato non è il concetto astratto delle “bellezze naturali”, ma l’insieme dei beni materiali che presentano valore paesaggistico.
    Non si tratta di decidere che cosa è bello e che cosa no. Gerolamo pensa che le grandi pale bianche, di per sé, non sono brutte.
    Anzi, fanno pensare a don Chisciotte e hanno un che di metafisico.
    Se rovinano un paesaggio non è perché sono sgorbi in un quadretto idilliaco, ma perché annullano il senso dei luoghi. Esiste un paesaggio laddove sul territorio si riconoscono dei segni, quelli che un geografo chiamerebbe iconemi. Costruire un’opera senza tener conto di questi elementi rischia di cancellarli, di lasciare un vuoto. Una campagna coperta di capannoni nel giro di pochi anni non è soltanto più brutta: è un territorio senza paesaggio, una frase senza sintassi, un ambiente alieno da chi lo abita. ”

    Nota aggiunta: la corte d’appello di Firenze con sentenza del 27 giugno 2011 assolve l’ing. Alberto Rubegni, AD di Impregilo, Carlo Silva e Giovanni Guagnozzi, rispettivamente consigliere delegato e direttore generale del Consorzio, e gli altri imputati ribaltando di fatto la condanna di primo grado e annullando il risarcimento di 150 milioni di euro per i danni ambientali. (LINK)

    In questo passo si scoprono le ragioni del titolo:

    Se si facesse una classifica dei luoghi d’incontro tra l’uomo e gli dei, la foresta e il deserto occuperebbero i primi posti.
    Entrambi confondono e disorientano.
    Uno perché è vuoto, l’altro perché è fitto. Uno perché è uniforme, l’altro perché si ripete. Il bosco nasconde l’orizzonte, il deserto lo annulla.
    L’uomo si sente piccolo, quando li attraversa. Il bosco è un utero di legno e di foglie. Il deserto è immenso, come la morte e l’aldilà.
    Entrambi si muovono e crescono, come un essere vivente. Inghiottono campi e città abbandonate. Uno perché risveglia la terra, l’altro perché l’addormenta.
    A entrambi l’uomo invidia l’eternità. Il bosco si rigenera dopo ogni inverno, il deserto non conosce stagioni. Nessuno dei due sembra invecchiare. Le sabbie non muoiono, gli alberi diventano più saggi, e quando cadono, quelli attorno crescono più in fretta.
    Si è detto che il deserto è monoteista, perché non vi accade nulla, mentre il rigoglio della foresta ospita geni, dei, santi e madonne.
    Ma non è del tutto vero: anche nel deserto spira il vento, sorgono miraggi e l’acqua dei pozzi disseta piante e animali. Piuttosto, il deserto è monarchico: il cielo è troppo incombente per non imporsi su tutto.
    Se gli altri dei sono più a loro agio nel bosco, si vede che preferiscono la democrazia.”

    Per chiudere, l’immancabile riferimento ai nonluoghi.

    Il bisogno di arrivare prima, arrivare prima, arrivare prima ti fa odiare gli ostacoli, le montagne, i boschi troppo fitti.
    L’aereo risolve il problema volando, a diecimila metri dal suolo e dalla sua crosta irregolare. Il treno ad alta velocità, invece, prende la logica dell’aereo e la porta sulla terra. Bologna e Firenze si avvicinano, come i due capolinea di una metro, ma quel che ci sta in mezzo si allontana, in un crepuscolo senza nome. Il tempo si mangia lo spazio e i luoghi svaniscono, svuotati come gallerie dalla corsa del treno. Invece di attraversare l’Appennino, o di scavalcarlo, il Frecciarossa lo buca come un solido qualsiasi, una massa di roccia senza significato.
    Ferro e cemento diventano il simbolo di un’utopia negativa (un’atopia, come la chiama qualcuno): territorio senza paesaggio.
    Una terra da perforare senza che nulla ti resti appiccicato addosso, nemmeno un ruscello intravisto dal finestrino.
    Dicono che i centri commerciali, le stazioni, i treni e gli autogrill sono tutti nonluoghi, spazi anonimi attraversati solo da clienti. Eppure, pensa Gerolamo, sono anche luoghi desiderati e vissuti, mentre i boschi, le piazze dei paesi e le montagne perdono significato, diventano strutture di servizio, riserve di aria buona e selvaggina per il fine settimana, piedistalli per mulini a vento, metri cubi di roccia da trasformare in calcestruzzo.
    Il supertreno ha già fatto molte vittime, ancor prima di partire.
    Morti ammazzati sul lavoro, torrenti a secco, sorgenti sparite, soldi bruciati. Tutti crimini che rimandano a un crimine più vasto: il tentato assassinio di una differenza. Quella che distingue un luogo da un ammasso di terra, un fiume da una sede autostradale, una strada di tutti dall’ingresso di una villa, un uomo dalla sua forza lavoro. Una differenza che ancora resiste, ma che potrebbe essere la prossima, l’ultima vittima.

    Wu Ming 2, Il sentiero degli dei, 2010 (questo il link per scaricare/acquistare il libro in formato digitale)


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