Gaetano Carboni

Gaetano ci dà appuntamento a Loreto Aprutino davanti al Museo dell’olio. Le indicazioni per arrivare sul posto non mancano ma non ci impediscono di rimanere con la macchina incastrata in una strettissima via senza uscita sotto gli sguardi alquanto divertiti di alcune persone del posto. Deve succedere abbastanza spesso e nel paese non ci devono essere molti svaghi se queste persone, quando ci hanno visto prendere la strada, non hanno pensato minimamente a metterci in guardia.
Il museo si trova dentro l’ottocentesco opificio del trisavolo, nonché vero nume tutelare di Gaetano, Raffaele Baldini Palladini. Si tratta di un personaggio davvero unico e interessante per la capacità che ha dimostrato di precorrere i tempi. Non solo ha ottimizzato le tecniche di molitura e spremitura delle olive ma ha saputo, da vero genio del marketing, proporre il proprio prodotto in tutto il mondo. Nel museo ci sono le immagini delle sue presentazioni alle principali fiere mondiali dove si nota un’attenzione modernissima non solo alla comunicazione commerciale ma al packaging e all’estetica delle stesse bottiglie.
Questa attenzione precorritrice dei tempi si nota anche nella scelta di realizzare l’opificio secondo i dettami stilistici di un fantastico e quasi favolistico neogotico. L’edificio, interamente realizzato in mattoni, che tanto caratterizzano le architetture di queste terre, presenta una soluzione d’angolo con torre merlata e finestre ogivali in cui si trovano frammisti ai mattoni piccole sculture, specie di micro-gargoyle, ritrovate negli scavi dei campi. Si tratta di una facciata in cui la curiosità dell’antiquario di mescola con il gusto per il fantastico. Pare che artefice del progetto sia stato l’artista Francesco Paolo Michetti col quale il Palladini Baldini aveva uno stretto rapporto di amicizia. Sempre Michetti è l’ideatore del complicato espositore a più piani, ideato per essere smontato e trasportato per le fiere, che ricorda una via di mezzo tra una fontana barocca e una scultura liberty.
Colpisce nell’acume commerciale di Palladini questo suo rivolgersi anche agli amici artisti (tra i quali ci furono lo scultore Costantino Barbella e il compositore Francesco Paolo Tosti) per promuovere e valorizzare i propri prodotti. E chissà se questo spirito mecenatesco non sia trasmigrato anche nel trisnipote Gaetano, nel quale, come ci ha raccontato nell’intervista, convivono l’amore per la terra con quello per l’arte, non fine a se stessa, ma sempre catalizzatrice di nuove visioni per la vita di questi luoghi e di queste comunità.

Il museo vale la pena di una visita, non solo perché si scoprono tutti i dettagli della lavorazione dell’olio attraverso le belle e imponenti macchine restaurate e rimesse al loro posto negli spazi del frantoio, ma perché si ha la possibilità di vedere un’architettura bellissima nella sua funzionalità ibrida di abitazione, nei piani superiori, e opificio, in quelli inferiori. Si intuisce l’esigenza della rampa che costeggia la torre d’angolo, quasi una prua che divide la strada e la costringe a prendere due direzioni diverse, per permettere ai carri di depositare il carico di olive nelle stanze di spanditura. Sono dei locali in cui le olive erano depositate in piccoli strati nell’attesa di passare attraverso delle caditoie al piano inferiore dove si trovavano le macine e i torchi. Oggi queste stanze ospitano gli orci e i fiscoli usati nella torchiatura nonché le etichette e le scatole d’imballaggio usate per inviare l’olio aprutino in tutto il mondo.
La scala interna permette di arrivare al piano terra passando per l’”inferno” un locale dove si trovavano le vasche per la raccolta delle puzzolentissime acque di vegetazione sottoprodotto della lavorazione. Colpisce il fatto che esattamente sopra si trovi un soppalco in cui andavano a riposare i trappetari, gli operai addetti 24 ore su 24 alle lavorazioni delle olive nei frantoi, chiamati in dialetto anche “culiunde”, i culi unti. L’opificio si presenta come una “oliata” (mai come in questo caso) macchina produttiva e metafora dei rapporti economici e sociali.

Tornando alla giornata passata in compagnia di Gaetano, dopo questa visita che ci ha permesso di capire bene il passato, ci siamo recati a qualche chilometro di distanza nell’azienda agricola di Pollinaria. Qui, invece, si trova il presente, e speriamo anche il futuro, di Gaetano. Per parlare di questo progetto a cavallo tra arte e agricoltura, ci siamo messi all’ombra di una quercia secolare mentre tutt’intorno avevamo i boschi e i terreni coltivati a cereali, erba medica, vigneti e frutteti.
Alla fine dell’intervista Gaetano non ha resistito e si è tuffato tra le spighe del suo adorato grano “Senatore Cappelli” (1) per verificarne l’altezza, come si fa con i bambini, poggiando il palmo della mano sulla testa e confrontandola con la propria. Dicono che le spighe possano arrivare all’altezza di un metro e 80. Siamo a buon punto.

(1) “Il nome di questa varietà è stato dato in onore del marchese abruzzese Raffaele Cappelli, senatore del Regno d’Italia, che negli ultimi anni dell’Ottocento, assieme al fratello Antonio, diede l’avvio all’epoca della trasformazioni agrarie in Puglia e permise a Nazareno Strampelli di condurre ricerche, mettendogli a disposizione campi sperimentali a coltura, laboratori e risorse. “ (fonte Wikipedia)

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Iniziamo da Pollinaria: ci racconti quando è nata l’idea e di cosa si tratta?
L’idea del progetto è nata da una specie di memoria infantile. A un certo punto della vita mi sono trovato a decidere cosa fare. Ho studiato giurisprudenza a Roma alla Sapienza ma, a metà strada, ho avuto la chiara percezione che non avrei voluto fare l’avvocato. Nonostante questa decisione, ho deciso di finire l’università anche per avere il tempo di chiarirmi le idee sul futuro. Nel frattempo mi stavo iniziando a interessare al mondo dell’arte e nel ’99, insieme a mio fratello e a un amico, ho fatto un viaggio in Europa alla ricerca delle residenze per artisti esistenti, un modo per conoscere meglio questo mondo e, eventualmente, replicarlo in Italia. Sennonché, avevamo 22-23 anni e la cosa è finita in tutt’altro modo…

Tipo ubriachi e nudi in una comunità hippy?
Non proprio, vi dico solo che era l’estate dell’eclissi solare e ci trovavamo nel momento culminante a Stoccarda. Questa esperienza mi ha segnato, ero a metà del percorso universitario, e mi ha spinto a partire per New York dove ho fatto un internship, in pratica un volontariato, in un centro di arti performative in downtown Manhattan. Un posto veramente estremissimo, che mi ha proiettato subito nel mondo più avanzato dell’arte contemporanea. Era quello che mi serviva, una scossa totale. Questa esperienza mi ha fatto capire che avrei dovuto laurearmi prima possibile per poi fare quello che volevo.

Come si chiama questo posto?
Franklyn Furnace, ora sta a Brooklyn ma prima si trovava a Franklyn Street, a Tribeca. Nel 2000 sono tornato, mi sono messo a studiare per finire e contemporaneamente ho iniziato a occuparmi dell’azienda agricola di famiglia. Questo lavoro mi ha fortemente riconnesso alla storia della mia famiglia in cui fondamentale è stata la figura del trisavolo Raffaele Baldini Palladini. È a lui che abbiamo dedicato la prima bottiglia d’olio prodotta in azienda. Nel 2002 mi sono laureato e ho seguito un corso postlaurea in gestione dei beni culturali, dove ho conosciuto Hela, la mia compagna. È stato allora che ho iniziato a capire che potevo mettere insieme questi due mondi, quello dell’agricoltura e quello dell’arte. Inizialmente avevo pensato di realizzare il progetto di residenze d’artista a Loreto Aprutino, nel palazzo che un tempo fu casa e frantoio di Baldini Palladini e dove ora ha sede il Museo dell’olio, ma quando ho provato a lavorare col pubblico ho capito che sarebbe stato infattibile con i finanziamenti locali. L’idea delle residenze ha quindi preso forma in campagna, a partire da un’antica masseria che sembrava ideale, sia per la facilità con cui può essere raggiunta, sia per le dimensioni, per ospitare artisti e visitatori. Utilizzando un finanziamento per l’agriturismo abbiamo ristrutturato la costruzione e, finalmente, nel 2007, è nata Pollinaria, sintesi dell’idea di residenze d’artista e dell’azienda agricola che, ormai, era avviata e sperimentata da già cinque, sei anni.

Prima del 2000 ti occupavi già dell’azienda agricola?
No perché vivevo a Roma, e se ne occupava mio padre. Inoltre, dopo Raffaele Baldini Palladini, tutti i discendenti hanno portato avanti questa azienda forse più per tradizione che per vocazione. Per molti anni, per tutta la mia infanzia, questo è stato il posto dove andavo con mio padre e mio fratello il sabato mattina: facevamo il giro, parlavamo con i contadini, andavamo a prendere il pane, le uova, era una specie di autosostentamento, la raccolta delle scorte alimentari per la settimana. L’idea di sviluppare l’azienda è venuta nel tempo, anche grazie alla decisione di convertire le colture al biologico. Abbiamo iniziato nel 2003 e nel 2006 c’è stata la prima certificazione.

Da quando si chiama Pollinaria?
Dal 2006 anche se nel 2007 c’è stata la partenza vera e propria. Ero alla ricerca di un nome che esprimesse i tanti aspetti del progetto e non riuscivo a trovarne uno. Un giorno, frugando nella biblioteca della casa di Loreto mi è capitato tra le mani un vecchissimo vocabolario latino-latino e ho deciso di leggermelo tutto dalla A alla Z, fino a quando non avrei trovato il nome giusto: pollinarium, da cui Pollinaria.

Cosa vuol dire pollinarium?
È un termine tecnico botanico che indica una formazione contenente il polline, presente in alcune famiglie di piante.  La base di questa si attacca alla testa delle api che possono così impollinare i fiori successivamente visitati. Mi sembrava che questo nome da solo potesse contenere le idee di fertilità, di creazione, di rigenerazione. Tutte idee che mi interessava sviluppare in un progetto che immagino come una specie di cantiere infinito, una sorta di culla, o incubatrice in cui integrare fattori provenienti da ambiti diversi ma capaci di fertilizzarsi a vicenda.

Ci parli degli artisti che hai ospitato finora?
All’inizio era semplicemente l’idea delle residenze d’artista che mi intrigava, poi ho pensato che la cosa veramente interessante era circoscrivere l’ambito di ricerca e in particolare concentrarsi su artisti che lavorassero con metodi in qualche maniera scientifici.  Si tratta di “pensatori”, chiamiamoli così, non facilmente classificabili come artisti o come scienziati, in possesso di una particolare visione della vita nel futuro che realizzano attraverso una fusione di diversi ambiti tradizionalmente distinti in arte, scienza, tecnologia, ecc ecc. È un approccio quasi rinascimentale, alla Leonardo. Questo da una parte, dall’altra ho sempre trovato interessanti gli artisti che lavorano con la natura e l’ambiente, che cercano di riflettere sul futuro della vita rurale.

Ci fai qualche nome?
La primissima, nel 2007, è stata Mira Calix, una musicista inglese di origine sudafricana che ha composto ed eseguito qui un’opera misteriosa, quasi un rituale di iniziazione per Pollinaria. Il primo artista residente è stato Nikola Uzunovski, un caso emblematico di questo rapporto tra arte, ingegneria, scienza e visione utopica del futuro. Ha pensato a una sorta di replica del sole che potesse illuminare i territori del circolo polare artico durante l’inverno, un satellite da lanciare in atmosfera con dentro uno specchio capace di riflettere la luce solare in determinati luoghi dove si svolge la socialità, come la piazza del paese.

Qui esattamente cosa ha fatto?
Ha tenuto un workshop e realizzato il primo prototipo in miniatura del satellite, una sfera di circa 2 m di diametro. Abbiamo fatto diverse spedizioni in montagna, a Campo Imperatore sul Gran Sasso, dove ha sperimentato la riflessione della luce. Alle prime luci dell’alba si posizionava con questo disco solare nei luoghi più disparati dell’altipiano e noi da lontano lo guardavamo e gli davamo delle coordinate per cercare di vedere come riflettesse. Il progetto si chiama My Sunshine, e si sviluppa in capitoli successivi, sempre più articolati. L’anno dopo è stato presentato alla Biennale di Venezia, dove Nikola ha innalzato il suo sole nel cielo dell’Arsenale.
Nel 2009 abbiamo ospitato un collettivo svizzero, etoy, che da molti anni portano avanti un progetto dal nome MISSION ETERNITY. Al cuore del progetto c’è una sorta di archivio digitale della vita delle persone che offre la possibilità di conservare le proprie memorie potenzialmente all’infinito. Il loro intervento si è svolto durante un weekend in cui i partecipanti hanno portato cose che volevano conservare – una poesia, la foto da bambini, una canzone che avevano scritto – e gli agenti di etoy in diretta hanno archiviato questi dati. Tra loro c’era anche un dottore con lettino ed elettrocardiografo che registrava il battito cardiaco e lo inseriva nella capsula. Ognuno si è fatto venire le idee più strane. Per esempio, Andrea Gabriele ha realizzato una capsula fisica con dentro una concentrazione di tracce e ricordi della sua famiglia che ha poi seppellito in una buca scavata sotto una quercia.  La sua “arcanum capsule” digitale contiene oggi le coordinate gps di questa buca.
Sempre nel 2009 abbiamo lavorato con una coppia di artisti, HeHe, a un progetto sulla storia e le conseguenze delle emissioni originate dall’uomo, dal fumo di tabacco fino allo scarico industriale, che analizza il fumo come espressione diretta delle attività dell’essere umano. Al principio, Heiko e Helen Hansen – HeHe – erano venuti sostanzialmente a scrivere un libro sull’argomento, una sorta di compendio del loro lavoro dedicato a questo tema. Tutto era partito come una cosa molto meditativa, tranquilla, sennonché durante la residenza hanno avuto l’idea di realizzare un’edizione speciale di questo libro che potesse essere fumabile. Per dare vita a questa idea, abbiamo coltivato delle piante di tabacco per poi essiccarne le foglie al fine di realizzare le pagine del libro. In realtà ci sarà un’edizione standard in cui solo la prima pagina sarà fumabile, una specie di ex-libris, e un’edizione limitata interamente in tabacco.
Il 2010 è stata la volta del gruppo dei Futurefarmers e del loro “non cavallo di Troia”. Quando sono venuti avevano abbastanza chiara l’idea di farsi una vacanza, poi però dopo due giorni si sono messi al lavoro e hanno creato questo cavallo enorme, un veicolo a trazione umana, una specie di grandissima ruota di criceto. L’idea era di fare un vero e proprio viaggio nei vari paesi della zona per interrogare i locali su quale fosse il futuro dell’agricoltura. La ruota internamente era tutta verniciata a lavagna per cui si poteva scrivere direttamente i propri pensieri, e il paese successivo poteva vedere ciò che avevano scritto gli altri.

Ora dove si trova questo cavallo?
Nella stalla, ovviamente. Questo progetto l’anno scorso ha vinto un premio della Andy Warhol Foundation dedicato ad artisti e scrittori ed è stato presentato alla Art+Environment Conference a Reno, in Nevada, dove siamo andati a presentare il progetto. È stato surreale perché mi ero preparato il discorso accompagnato da slide, tutto formale e perfetto, ma accanto a me avevo Amy Franceschini, la portavoce del gruppo, con indosso una maschera gigante da cavallo. Dopo il mio discorso si è tolta questo cappuccio come fosse una maschera di guerra e ha iniziato a raccontare le avventure dei Futurefarmers tra l’ovazione del pubblico.
L’anno scorso, invece, è stata la volta delle oche lunari di Agnes Meyer-Brandis. Tutto nasce da un romanzo del ‘600, The Man in the Moone di Francis Godwin, una specie di science-fiction antelitteram dove l’autore anticipa le teorie della gravità e i viaggi nello spazio. La storia narra di un avventuriero spagnolo che vola sulla luna trainato da una colonia di oche. Lì incontra una civiltà pacifica di alieni favolosi e poi torna sulla terra. Questa è solo una delle ispirazioni all’origine del progetto, l’altra si basa sullo studio del rapporto tra l’uomo e le altre specie viventi secondo gli studi di etologia di Konrad Lorenz. Quando Agnes mi ha proposto di formare una colonia di oche su cui portare avanti la sperimentazione mi sono posto mille problemi di carattere etico, così ho pensato che poteva essere interessante abbinare a questo progetto anche il tentativo di proteggere una specie a rischio. Per questo motivo siamo andati a prendere le uova da un allevatore di oche romagnole in purezza a Reggio Emilia, il 10 aprile del 2011, e le abbiamo covate in un’incubatrice per 30 giorni.  Sono nati undici esemplari di oche lunari a cui Agnes ha dato il nome dei grandi astronauti della storia, Yuri, Buzz, Neil, etc. Dal momento della nascita, ha intrapreso una sorta di addestramento astronautico leggendo ai paperi le storie degli allunaggi, vestita di tutto punto con tuta spaziale e badge della missione cuciti sopra. Le attività consistevano soprattutto in escursioni con le oche al seguito, a piedi, in bici e anche a nuoto nei laghetti di campagna.. Miccetta ha costruito una lampada a forma di luna, illuminata da una torcia da campeggio, che fungeva da guida durante le passeggiate notturne. Agnes ha concluso questo periodo con una gita a Campo Imperatore, il medium perfetto tra la terra e la luna, dove abbiamo fatto diverse riprese. Con questo video il progetto doveva finire, l’accordo era che le nuove generazioni di oche sarebbero state trattate in maniera ben diversa, sennonché pochissimi giorni dopo la sua partenza, ad agosto, Agnes si è ritrovata al festival Ars Electronica, dove ha incontrato il curatore dell’agenzia inglese The Arts Catalyst che le ha chiesto se avesse voluto continuare il progetto. L’idea per questo nuovo sviluppo del progetto – frutto di una partnership tra Pollinaria e The Arts Catalyst – è stata quella di creare due ambienti in comunicazione: da una parte uno spazio-analogue, ovvero la riproduzione della superficie lunare, dentro un fienile che si trova qui, dotato di webcam, pannelli di controllo e altre attrezzature collegate a circuiti dove le oche vanno a beccare il cibo o a bere l’acqua; dall’altra, una sorta di sala di controllo mobile, tipo Cape Canaveral – finora installata a Liverpool e Newcastle – dove è possibile vedere cosa fanno le oche e interagire con loro. In realtà sono le oche che interagiscono con i visitatori della mostra perché possono mandare messaggi toccando le loro ciotole con il becco, oppure mordendo il tarassaco che è la loro pianta preferita.

Per quest’anno c’è già un progetto?
C’è un nuovo progetto in cantiere proposto da un artista che ho conosciuto in Nevada. Si chiama Fritz Haeg, ed è una specie di ritorno ai temi dell’agricoltura e dell’artigianato, se vogliamo qualcosa di meno fantascientifico. A novembre scorso abbiamo iniziato a pensare a cosa fare e l’attenzione si è lentamente concentrata su alcune ricerche che già da anni Fritz porta avanti in Italia. In sostanza vuole studiare le abitudini domestiche delle persone, anche le più banali – come si apparecchia la tavola o si fa il caffè, come si taglia una pagnotta di pane –, per creare una specie di ricettario o istruzioni per l’uso, utilizzabile da chiunque. Sembra un’idea molto semplice, eppure si basa su alcune teorie rivoluzionarie di Buckminster Fuller, in particolare sul concetto di pattern integrity. Fuller sostiene che tutte le specie animate, l’essere umano per eccellenza, possiedono una loro integrità. Anche se nel giro di sette anni cambiamo tutte le cellule del nostro corpo, quindi siamo matericamente diversi, in realtà conserviamo una nostra identità che rimane tale fino a quando moriamo. Fuller sostiene che questa caratteristica può essere riconosciuta non solo negli esseri viventi ma anche nelle cose da essi create. La questione è capire quali cose ne siano in possesso e quali no. È un progetto molto difficile da realizzare soprattutto perché non ha dei confini precisi.

Ci spieghi meglio qual è il tuo ruolo nei confronti di questi artisti?
All’inizio, ti parlo delle prime due, tre occasioni, questi artisti pensavano che Pollinaria fosse la classica residenza d’artista, un posto dove, anche se c’è un curatore, vai crei, fai una mostra e te ne vai. Io volevo fare qualcosa di diverso. La scelta degli artisti è legata a una sorta di visione finale di Pollinaria che congiunge la ricerca in campo artistico a quella in ambito agricolo e ambientale. Per me, quindi, è come se fossero tutti progetti su commissione. Mi rendo conto che questo potrebbe essere avvertito come un’invadenza nei confronti del pensiero dell’artista, però io sempre di più invito l’artista a pensare a qualcosa compatibile con la nostra mission. Per me non si tratta solo di ospitare artisti ma di lavorare insieme con loro. Chi viene qua dovrebbe sentirsi parte di un progetto più ampio, parte di un percorso. Non posso dire di essere un curatore, il mio ruolo è veramente molteplice.

In tutto questo hai forme di finanziamento statali o regionali?
Finora Pollinaria si è sempre autofinanziata. Chiaramente questo è anche un limite perché ha un budget limitato e, se volesse crescere, avrebbe necessariamente bisogno di finanziamenti esterni. Ogni tentativo di accesso a questi è stato finora legato alla chiara percezione di perdere una fondamentale indipendenza nelle scelte, che invece vorrei mantenere. Preferisco fare cose a budget ridotto ma in autonomia.

Il progetto artistico non ha altre forme di finanziamento? Non c’è la possibilità di guadagnare qualcosa da queste operazioni artistiche per poi investirlo in nuovi progetti?
I guadagni diretti dalle attività artistiche sono stati finora eventi sporadici, come quello, ancora solo sulla carta, della percentuale sulla vendita del libro degli HeHe, o il compenso per la partecipazione alla conferenza in Nevada. Ho pensato ad altre forme di finanziamento, per esempio, attraverso la vendita dei diversi tipi di documentazione (fotografica, video) dei progetti. Però sono cose che vanno viste nel caso specifico, bisogna prendere accordi con l’artista… è una cosa piuttosto complicata. Certo, sarebbe molto più semplice accedere a finanziamenti fissi. Per esempio, la futura casa delle oche, una cosa potenzialmente molto costosa, potrebbe essere realizzata più facilmente attraverso un finanziamento agricolo, piuttosto che artistico.

È più facile ottenere finanziamenti per l’agricoltore che per l’artista?
Decisamente. Per il restauro della casa colonica, non ho potuto fare domanda come residenza per artisti ma come agriturismo, perché quella è una voce esistente, chiara. Poi, come azienda agricola usufruiamo di tre categorie di contributi: contributi standard della PAC, politica agricola comunitaria, in base a dei criteri complicatissimi; contributi per l’agricoltura biologica e, poi, per i terreni forestati.

Mentre venivamo qui ci accennavi a delle strane pratiche di scansione della natura, fanno parte sempre dei progetti di Pollinaria?
Questo è un altro capitolo e la sezione del sito dove si trova si chiama Habitat. Da quando ho iniziato nel 2006, lavoro con un designer e scultore inglese che segue tutta l’identità visuale di Pollinaria, dai progetti artistici al packaging dei prodotti agricoli. Tra le altre cose porta avanti un progetto personale che consiste nello scansionare il paesaggio. Abbiamo fatto non so quante sessioni di scanning e ogni volta è una cosa lunghissima perché a lui piace lavorare con materiali molto low-tech. Usa un vecchio scanner piano, di almeno dieci anni fa, collegato a delle batterie. Dobbiamo andare ogni volta in due, di notte, preparare il posto per tenere lontani cinghiali e altri animali selvatici, e poi fare la scansione. Immagina, al buio nei posti più remoti, si mette lì con lo scanner, immobile, col sudore che gli cola, e quando è pronto fa: “Scanning”. Nella notte si vede solo questa luce e si sente il rumore del carrellino dello scanner che arranca.

Ci hai raccontato già com’è nato il progetto Pollinaria, però c’è stato un momento preciso in cui hai capito che era questo il percorso che volevi fare?
Mi ricordo il giorno esatto. All’epoca studiavo a Roma e non venivo qua da tantissimo tempo. Ho passato una giornata intera andando in giro nel fosso, per i sentieri e i campi, facendo una specie di mappatura. Lì ho capito che sarebbe stato fantastico, e infinito, e non mi sarei mai annoiato, ma anzi sarebbe stato sempre di più una sfida continua.

Quando hai bisogno di ritemprarti o cerchi ispirazione, cosa fai?
Ormai ho questo tempo standard di 35 minuti per spostarmi da Pescara a Pollinaria e lo uso per pensare. In genere sono ripetitivo nei pensieri, nel senso che mi ripeto un’idea nella mente più volte finché diventa sempre più dettagliata, quindi uso questi 35 minuti per chiarirmi le idee. A volte mi capita che se devo incontrare delle persone, e non ho ancora finito il pensiero, mi fermo alla sbarra all’ingresso e solo dopo che ho completato il mio pensiero, “cling”, entro. A volte, mi faccio tutto un programma del pensiero: all’andata penso a questo e al ritorno penso a quest’altro. A parte questi momenti, in cui i pensieri sono molto ripetitivi e legati fondamentalmente al lavoro, il momento migliore in cui trovo ispirazione è la mattina quando mi sveglio: mi si affollano i pensieri nella testa e, a un certo punto, faccio ordine e arrivano le idee.

Passiamo alle attesissime domande alla dariabignardi: hai dei siti web preferiti?
Si tratta in genere di siti informativi. Uno che guardo spesso è Agricoltura24. Poi, siccome internet per me è solo lavoro e non c’è niente di divertente, quando ho un momento di svago davanti al computer ascolto musica. Mi sono dimenticato di dirlo ma per me la musica è stata fondamentale nel periodo di transizione in cui dovevo fare la scelta che mi ha portato a intraprendere questo progetto. C’è una musica in particolare che mi ha accompagnato in quegli anni.

Qual era questa musica?
Erano gli anni tra la fine dei ‘90 e il 2000 e mi ero appassionato alla musica elettronica. La band che più mi ha influenzato è quella dei Boards of Canada: era esattamente il sottofondo del mondo che avrei voluto vivere.

Ora, invece, cosa ascolti?
Mi piace molto l’etichetta Raster-Noton quella di Alva Noto. Mi piacciono gli Animal Collective, il progetto solista di Panda Bear, spesso vado su Bleep, dove tutte le settimane posso ascoltare le preview di una trentina di dischi.

Leggi o compri riviste?
Sto per eliminarle del tutto. Sono abbonato a uno sfacelo di riviste che, però, non mi sembrano più così fondamentali. Mi piace Frieze, una rivista di arte contemporanea inglese, per la musica The Wire. Ho pensato di eliminare tutti gli abbonamenti sia perché ho meno tempo sia perché mi sento un idiota a sfogliare tomi alti così, consistenti principalmente in pubblicità.

Libri preferiti in assoluto e quelli che ora hai sul comodino?
Sul comodino ho tre libri e sono tutti di Buckminster Fuller: Synergetics, del ’75, Synergetics 2, del ’79 – il sottotitolo è Explorations in the geometry of thinking –  e Ideas and Integrities, tutti legati al progetto di Haeg. Il libro, invece, che forse più mi ha colpito a livello personale è La montagna incantata di Thomas Mann.

Guardi la TV?
La tv è un oggetto spento dentro il salotto a cui collego il computer per vedere delle cose. Quando arrivo alle 8.30 di sera, dopo una giornata di pensieri, l’unica cosa che voglio è una specie di protuberanza che mi svuoti il cervello. Le uniche cose che vedo in televisione, a parte ogni tanto i film, che però mi disturbano perché troppo impegnativi, sono i teen-drama americani, tipo Beverly Hills 90210: se i protagonisti superano i 17 anni a me non interessano. Quello più intellettuale che ho visto ultimamente è inglese, Skins. Il programma è questo: si cena, due puntate di Skins e poi a dormire. È una specie di panacea, totalmente terapeutico, più rilassante dell’estratto di melissa. Tra le altre serie che ho visto mi è piaciuta molto Pan Am, stile Mad Man, però più gossippara.

Cinema?
Non ci sto andando molto perché non amo il doppiaggio in italiano. L’ultimo che mi è piaciuto è This must be the place di Sorrentino. Se, poi, ti devo dire il corrispettivo cinematico dei Boards of Canada, ti direi 2001 Odissea nello spazio.

Città in cui vivresti?
Sto prendendo seriamente in considerazione l’idea di andare a vivere a Loreto Aprutino. Se, invece, devo parlare su scala planetaria, direi Reykjavik come dimensione di vita e per la bellezza della natura.

Quali sono le qualità che servono per fare il tuo lavoro?
Penso solamente la volontà di identificare il proprio lavoro con la propria vita, con tutte le difficoltà che questa scelta comporta.

Una qualità che vorresti avere, che ti manca, e che vorresti coltivare?
Ce ne sono tante: da una parte vorrei avere un maggiore pragmatismo, pensare più in termini organizzativi d’impresa, e dall’altra vorrei avere una conoscenza più tecnico-scientifica della natura da poter spendere in questo campo. Mi piacerebbe entrare in 10 mq di terreno e saper riconoscere tutte le piante che ci sono.

Cosa ti piacerebbe trovare nel tuo futuro?
Tantissime cose: vorrei che tutti i campi di questa attività, quello artistico, agricolo, ambientale, si integrassero sempre di più, mentre ora vedo ancora separazioni. Vorrei che ci fosse una specie di centrifuga che li mescolasse insieme. Vorrei vedere dove porterà tutto questo. Non ho un orizzonte chiarissimo, ma forse mi piace proprio per questo.

Invece, una preoccupazione?
Sono abbastanza ansioso, ma una cosa mi spaventa in modo particolare: perdere la memoria. Ci sono cose della mia vita, come brutti ricordi, cose che magari vorrei non aver fatto, che vorrei cancellare, e da quel punto di vista potrebbe essere una cosa positiva, dall’altra è una cosa che mi fa veramente paura, svegliarmi un giorno e non ricordare più nulla.

Ultima domanda: facci il nome di persone che reputi comiche, creative e guerriere.
Una persona che sicuramente ha queste caratteristiche è un agronomo che si chiama Donato Silveri. Vive a Sulmona ed è la persona che più di tutte ha fino ad ora studiato e cercato di valorizzare la biodiversità agraria abruzzese. Con lui sto collaborando per diverse cose tra cui la creazione di un frutteto e un progetto di conservazione di cereali autoctoni. Rimanendo in campo agricolo, vi consiglierei di conoscere Eugenia Cerasoli, giovane agronoma esperta di agricoltura biologica e di tutto quanto concerne il mondo dell’olivicoltura (degli ulivi è anche potatrice provetta);  Tullio De Felicibus, apicoltore e presidente dell’AIAB – Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica – Abruzzo. Ha una casa fantastica dove tutto profuma di miele, una vera e propria bomba impollinatrice nel centro di Montesilvano. In campo artistico, molti li avete già intervistati o sono stati nominati, tra cui Miccetta, Claudia Ferri, Matteo Fato… Tra l’altro, con alcuni di loro stiamo pensando di creare una specie di condominio di artisti a Pescara, in una casa che sta sulla Tiburtina, un palazzone improbabile, dove attualmente ha lo studio Matteo, e dove hanno preso studio anche altri due artisti molto bravi, Paride Petrei e Lorenzo Aceto. Stiamo pensando di promuovere questo progetto invitando anche altri a partecipare. Poi aggiungerei Andrea Straccini, Giorgio Liddo, Daniela d’Arielli e Emanuela Barbi. Oltre ad artisti e fotografi inserirei nella lista anche persone con alto tasso di CCG che si occupano di arte – curatori, scrittori, critici – come Marco Antonini, che è di Pescara ma lavora a Brooklyn dove dirige una galleria che si chiama Nurtureart, Francesca Referza e Veronica Valentini, curatrici abruzzesi attualmente al lavoro fuori regione e/o nazione, Simone Ciglia e Giorgio D’Orazio, giovani critici e curatori di base invece a Pescara e Roma. Per finire vi consiglierei di intervistare Hela, che si occupa creativamente di fiori ed economia della cultura e mio fratello Berardo: vi potrebbe raccontare tutta la storia dell’occupazione del Teatro Valle e le vicende dei suoi film Shooting Silvio e Vola Vola.

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LINKS: www.Pollinaria.org


1.395 thoughts on “Gaetano Carboni

  1. Caro Gaetano… chapeau bas!!
    Come sempre bellissima intervista! Bravi!

    ps: se ci becchiamo in giro ricordami di parlarti del Tweed Ride!!

    1. eravamo già stati a Pollinaria ma non ci eravamo mai addentrati giù per la strada che porta al fosso.
      Una vera scoperta, e poi avevamo una guida d’eccezione!

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