Emanuela Barbi

    Pescara, 25 maggio 2013

    Emanuela Barbi ci dà appuntamento a Villa del Fuoco, uno dei quartieri più problematici di Pescara per la presenza di una vasta comunità rom e delle vicine case popolari. Ci aspetta nel cortile recintato di una chiesa, anzi, una doppia chiesa. Da una parte c’è la vecchia chiesa, in mattoni rossi, la facciata col timpano e il campanile a sinistra che si affaccia sull’angolo della strada. Dall’altra una nuova chiesa, nascosta all’interno, moderna e aliena come un’astronave atterrata per caso in uno spazio abbandonato in un film degli anni ’60 (“un piatto di minestra“).
    Si tratta dell’ultimo giorno del suo progetto GIROvita che l’ha portata in nove quartieri pescaresi a cercare di instaurare con i passanti e gli abitanti un dialogo senza filtri.
    Con il suo furgone, Emanuela si è fermata in alcuni luoghi della città e ha posto a tutti la stessa domanda: “Cosa è per te l’arte?”
    Una domanda impegnativa, brutale, che ha rivolto anche a me e a cui non ho saputo rispondere.

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    Raccontaci com’è nato questo progetto e, poiché questo è l’ultimo giorno, anche come andata.

    Oggi è l’ultimo giorno e siamo anche un po’ dispiaciute. Ci sarebbe piaciuto continuare ancora per qualche giorno e portarlo in altri quartieri.
    Girovita nasce da una proposta di Marcella Russo, organizzatrice di eventi e, in questo caso anche curatrice, di fare un lavoro con il Comune di Pescara e la Commissione alle Pari Opportunità che hanno stanziato un piccolo fondo.
    C’era la volontà comune di fare qualcosa fuori dagli spazi istituzionali. Quando le ho proposto un mio progetto nomade, come spesso sono i miei progetti di arte relazionale, lei ha accettato al volo e così è nato GIROvita.
    Il nome è evocativo del girovagare, di una stanzialità precaria che molto mi appartiene.
    Volevamo portare l’arte nella strada, per i quartieri e, avendo a disposizione dei fondi limitati, ci siamo mobilitate alla ricerca di soluzioni semplici ed economiche.
    Nonostante tutti i sacrifici di dover sempre scavalcare gli ostacoli economici, alla fine possono nascere lavori interessanti e GIROvita lo è stato sicuramente.
    Siamo stati in nove quartieri, un giorno per ogni quartiere. Attraverso questo osservatorio urbano mobile abbiamo raccolto informazioni su quello che la gente pensa dell’arte. Ci sono arrivate tante altre informazioni non richieste, ma che sono arrivate a noi perché gli anziani hanno molta voglia di parlare e di raccontare. E sono arrivate anche dai ragazzi della strada in quartieri come San Donato, Rancitelli, i colli. Abbiamo incontrato tanti ragazzi che non vanno a scuola e la mattina non hanno niente da fare tranne che stare seduti su una panchina. Abbiamo incrociato anche i tossicodipendenti. Tutti si sono relazionati con noi molto spontaneamente.
    Al contrario, in molti quartieri la gente non si è fermata, è diffidente, va di fretta, non gliene importa nulla. Se vedono una persona che si avvicina pensano che voglia dei soldi e quindi la trattano anche in modo maleducato.
    Da questo osservatorio esce, nel bene e nel male, uno spaccato della realtà e, purtroppo, gli aspetti negativi predominano.
    Credo che l’obiettivo di realizzare non un documentario ma un’opera d’arte consista in questa operazione alchemica che trasforma il dolore, questa impossibilità espressiva della gente, in un’opera e, quindi, nel sogno.

    Questa, appena conclusa, è la fase di acquisizione dei dati, quale sarà l’esito finale?

    Abbiamo raccolto molto materiale – interviste, fotografie, filmati, appunti, disegni, poesie – e molto altro è arrivato dai tanti amici che ci hanno seguito.
    Devo dire che c’è stata una grande partecipazione e, forse, è stata la cosa più importante. Il progetto è diventato relazionale e partecipativo ancor prima di iniziare e questo è stato già un gran risultato. Non è una mostra, di cui forse non abbiamo bisogno in questo momento, ma un progetto attivo, per la strada, a cui tanti amici professionisti stanno collaborando. Già da domani metteremo insieme tutti i materiali e inizieremo a smistare, selezionare le cose più importanti e più forti. Poi inizierà il lavoro di post-produzione vero e proprio. Stiamo già lavorando a una selezione delle musiche che accompagneranno questo percorso, questa geografia o mappa della città. Pensiamo che il tutto possa essere pronto e presentato a settembre in un secondo evento in collaborazione con il Comune di Pescara.

    Quali sono le cose più curiose che sono capitate?

    Un incontro che mi ha colpito molto, e non mi ha fatto dormire la notte, è stato con un bambino di quattordici anni che mi ha detto di non amare l’arte, che dell’arte non gli interessa niente. Me l’ha detto anche molto duramente, come se volesse colpirmi. “Io non so disegnare, io non amo l’arte, non mi piace la musica, non mi piace la pittura, non mi piace la danza, non mi piace niente, non m’interessa. Io faccio altro: mi piace solo fare le arti marziali.” Queste sono le sue precise parole, le ho imparate a memoria. Al che gli ho detto che l’arte marziale, lo dice la stessa parola, è un’arte antichissima che viene da un altro paese, una filosofia. E lui ci ha pensato un attimo, interdetto, e mi ha risposto: “Non ci avevo mai pensato.” Questa cosa mi ha colpito duramente: per la violenza con cui mi ha detto questa cosa, per l’incapacità di riflessione su quello che lui stesso pratica e, quindi, per la superficialità con cui questi ragazzi frequentano queste scuole di arti marziali. Questo è stato un grande dolore.
    Un episodio molto carino, invece, riguarda gli zingari, i rom, che hanno sempre molto partecipato. Ho incontrato un’anziana zingara che mi ha parlato di Picasso ed è una cosa di cui sono rimasta molto felice.

    Con questo lavoro ti sei posta in ascolto, che tipo di richieste sono arrivate dalla gente?

    La gente ha bisogno di parlare di sé. Gli anziani parlano dei problemi economici, della pensione, della moglie morta, della solitudine, della paura di stare soli. I ragazzi a Rancitelli ci descrivevano il quartiere, ci parlavano della mancanza di integrazione tra le comunità rom, rumene, albanesi e cinesi. Ci parlavano di questa difficoltà, delle bande, delle botte. Sembrano cose d’altri tempi, cose che non ti aspetti, storie pasoliniane, e invece escono fuori. Io non posso immaginare in quale misura sia tutto vero, perché poi i ragazzi tendono a enfatizzare. Davanti a una telecamera si pavoneggiano del loro ruolo i ragazzi di strada, giustamente, ed è, comunque, già una grande conquista. Ti parlano di tutto, della loro vita. C’è un grande bisogno di esprimersi. Questo da parte di quelli che si sono relazionati, ma ci sono quelli che si sono rifiutati, ci hanno trattato anche male.

    In che modo?

    Nel senso che ci hanno mandato via, ci hanno detto di andare “a faticare”, che non possono pensare all’arte con tutti problemi che ci sono. E non puoi dir loro niente, perché è una risposta valida, di questi tempi più che mai.

    Che cos’è emerso riguardo agli spazi della città?

    Viene fuori una città abbastanza grigia e dismessa dove, soprattutto negli ultimi anni, ogni tanto spuntano delle grandi architetture. Sono belle ma non si integrano, sono come funghi che emergono da un sottobosco degradato. Spuntano fuori da un non finito, da una città-cantiere che non è mai completa. Siamo stati l’altro giorno a Piazza dei Grue, in questo quartiere carinissimo, in cui ho passato l’infanzia, dove non c’è da fare niente, perché è già tutto perfetto, tranne restaurare ciò che si è degradato nel tempo. Stanno realizzando una piazza con un lastricato di pietra bianca che è fuori da qualsiasi logica rispetto a quel quartiere di casette gialle. Su questo lastricato di pietra hanno piantato due platani invece che dei pini come quelli che circondano tutto il quartiere. Allora mi chiedo: perché, com’è possibile?

    Durante questa ricerca hai scoperto relazioni tra i luoghi della città e le persone che vi abitano?

    Credo di sì. Abbiamo avuto a che fare con i rom che vivono molto il luogo in cui vivono. Hanno case sempre molto colorate, con statue di gesso, Sette Nani, giardini pieni di rose, cose che caratterizzano molto il quartiere. Anche qui, intorno a questa parrocchia che ci ospita oggi, c’è una grande comunità neocatecumenale, e questo si riflette sul quartiere. Poi, è chiaro, spostandoci vicino al ponte del mare, oppure alla stazione centrale, siamo in luoghi in cui passano le persone più disparate, sono dei luoghi “corridoio” privi di un vero e proprio carattere.

    Come si pone quest’esperienza rispetto alle cose che hai fatto in passato? Ci spieghi la tua idea di arte relazionale?

    L’arte relazionale è stata storicizzata, codificata, tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ’90. In realtà, non ho mai deciso di appartenere a questa forma d’arte, mi ci sono poi trovata, forse inconsapevolmente, in un progetto di alcuni anni fa che si chiamava Dammi spazio. La mostra Railways stories, a cura di Adriana Martino, si svolgeva all’interno della stazione centrale ed io, invece di portare un’opera a parete, chiesi di occupare uno spazio della stazione. Fu il mio studio per un mese, accoglievo tutti i passanti, quelli che stazionavano, che aspettavano un treno, ma anche tanti invitati, amici. Lì, abbiamo organizzato concerti e mostre. Quello è stato forse un po’ l’inizio ma, in realtà, faccio arte relazionale anche andando a lavorare in campagna. In quel contesto mi relaziono con i contadini, con cui mi piace avere uno scambio, con cui mi piace entrare in comunicazione. La verzura è un punto di partenza di un’operazione che si trasforma in arte. Quando mi ritrovo con il vecchietto che mi insegna a fare l’intreccio del canestrello, magari con il giunco che nasce sotto casa, per me è arte relazionale. Sono tutti appunti in un cassetto che poi prendono forma visiva in un secondo tempo. Proprio sul relazionale sto lavorando con un gruppo che si chiama Neola. Il progetto, in cui collaboro con altri artisti come Bruna Esposito, Enzo de Leonibus e Franco Fiorillo, è nato sulle macerie del terremoto dell’Aquila per raccogliere fondi da destinare al restauro di piccoli beni artistici distrutti dal sisma. È un’associazione senza fini di lucro che opera su invito in spazi pubblici e artistici. Con una cucina mobile facciamo le neole, il tradizionale dolce abruzzese, utilizzando una piastra in ferro, realizzata appositamente, che riproduce la forma del rosone della basilica di Collemaggio.
    Siamo stati alla Bicocca a Milano, al centro d’arte contemporanea La Nuova Pesa a Roma, al Premio Terna, saremo a Venezia durante la Biennale d’Arte, …
    Abbiamo lavorato a un’operazione di sensibilizzazione per il restauro delle edicole della scalinata di San Bernardino, le cosiddette “nicchie del primo bacio”, chiamate così proprio perché i ragazzi vanno a sedercisi dentro un po’ rannicchiati per darsi i bacetti. In seguito le edicole sono state restaurate dall’Associazione dei Costruttori Edili della provincia dell’Aquila.
    Sono piccole cose che diventano importanti e nascono dal mettersi in relazione con le persone.
    Girovita nasce anche da queste esperienze, dagli incontri avvenuti con artisti importanti come Cesare Pietroiusti, uno dei primi a essersi occupato di arte relazionale, forse il primo in Italia.

    Chiudiamo l’intervista con le nostre classiche domande banali.
    Quando hai bisogno di ispirazione cosa fai?

    Vado in campagna o passeggio sulla spiaggia.

    Consigliaci un sito.

    Www.pensierinonfunzionali.net di Cesare Pietroiusti.

    Una rivista.

    Non ne leggo.

    Libro sul comodino.

    Io sono un gatto di Soseki Natsume.

    Il libro preferito?

    Libertà dal conosciuto di Krishnamurti.

    Programma tv?

    Non vedo la televisione.

    Cinema?

    La ricotta di Pier Paolo Pasolini.

    La città?

    Berlino.

    Musica?

    Nick Cave.

    Quali sono le qualità che servono per il tuo lavoro?

    È una domanda difficile perché il mio lavoro è fatto di tante cose e, quindi, ci vogliono tante qualità, tantissime. Poiché lavoro sempre, fino all’ultimo secondo, direi che la qualità fondamentale è l’improvvisazione.

    Cosa ti aspetti di trovare nel futuro?

    Nel futuro mi aspetto di raccogliere del seminato, mi piace sempre ben seminare.

    Invece, una preoccupazione che ti affligge?

    La miseria.

    Ci fai il nome di persone amici che ci consigli di conoscere?

    Li avete intervistati già tutti, vi consiglierei due artisti con cui collaboro nel gruppo Neola: Bruna Esposito, un’artista meravigliosa, tra le donne in Italia che più amo, e Franco Fiorillo, un artista aquilano molto interessante.

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    Comici Creativi Guerrieri – Emanuela Barbi from rem AST on Vimeo.







    foto e video di Pippo Marino


    8 thoughts on “Emanuela Barbi

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