Eco Villaggio Autocostruito

    Il tempo non promette bene quando ci muoviamo da Pescara per Pescomaggiore, frazione di L’Aquila. Fa un freddo che sembra voler giocare d’anticipo sull’autunno per farci assaggiare un po’ di grigio invernale. Quando arriviamo nel paese il cielo è coperto e le montagne nascoste dalla nebbia. All’incrocio troviamo un cartello disegnato a mano con i colori dell’arcobaleno che ci indica che per andare all’Eco Villaggio Autocostruito (da ora in poi denominato EVA) bisogna svoltare a sinistra, esattamente dalla parte opposta rispetto al vecchio paese.
    In realtà il villaggio non è altro che cinque casette con i tetti a falda di lamiera, di cui uno ancora in costruzione, appoggiati sul fianco della collina. Tra la strada carrabile, che va verso la montagna, e le case non ci sono recinzioni, solo i resti di strane costruzioni in legno che ricordano case di bambole con enormi pannelli solari (scopriremo dopo che si tratta di un essiccatoio) e una scultura a forma di chiocciola che a prima vista sembrava un mucchio di scarti di legno abbandonati.
    Intorno a noi mucchi di paglia, tanta paglia, di quella usata per costruire i muri di queste case. Ci accolgono all’arrivo Isabella e Ludo, due degli abitanti di EVA, e portano nella cesta di vimini dei preziosissimi fiori di croco da cui si ricava lo zafferano. Quella di recuperare antiche tipologie di coltivazione del territorio è una delle basi del progetto EVA in cui si fondono l’amore per i luoghi, la passione per il vivere civile e il rispetto del lavoro.
    La nostra guida, di cui ci aveva parlato in precedenza Pelino, è Dario D’Alessandro, un giovane avvocato che qui a Pescomaggiore aveva deciso di venire a vivere con un sogno ben preciso: sperimentare sulla propria pelle gli ideali e i progetti teorici studiati per anni nel campo dello sviluppo sostenibile e della gestione dei beni comuni.
    Una scelta coraggiosa e generosa che, però, non poteva prevedere il sisma che il 6 aprile 2009 ha colpito Pescomaggiore come tutti i centri dentro e fuori L’Aquila.
    Si vede che Dario è abituato a fare da guida al villaggio e al paese, devono essere in molti quelli che, raggiunti dall’eco mediatica su queste costruzioni sperimentali, sono arrivati qui per capirne di più e, magari dare un contributo. È imbarazzante fare i turisti in questi luoghi tragici, la stessa sensazione che si prova a muoversi per il centro dell’Aquila, si ha pudore anche a fare delle fotografie. Dario ci fa capire che la presenza di estranei qui è vitale per mantenere viva l’attenzione dei media su queste città che, dopo essere state imbracate in complicatissime impalcature, rischiano di essere dimenticate.
    Ci porta a fare un giro per capire meglio la situazione e il progetto nato prima con il Comitato per la rinascita di Pescomaggiore e poi con EVA. Attraversiamo l’ultima casa in costruzione, che rivela la sua struttura portante in legno e tiranti d’acciaio pronta per essere chiusa dagli spessi muri in paglia e intonaco; passiamo davanti ai resti di uno strano orto biodinamico che sembra un labirinto di arabeschi; giriamo intorno al campo di patate, perfettamente dissodato e recintato per proteggerlo dai cinghiali; camminiamo sotto i noci; scopriamo ciò che resta delle antiche aie dove la comunità lavorava collettivamente il grano; osserviamo il prefabbricato che ospita la chiesa annunciata da una campana appesa a un improvvisato campanile di tubi innocenti; osserviamo il map portato dalla Protezione civile, che sembra uscito direttamente da un catalogo tedesco; entriamo in ciò che resta del paese fino ad arrivare al punto più alto dove si trovava il castello. Oggi ciò che resta dei torrioni e della piccola cappella è completamente ricoperto da un parallelepipedo in cui la struttura reticolare è chiusa da lamiere e doghe di legno. In pratica un enorme guscio vuoto che copre ben miseri resti. In compenso da qui, ora che la foschia si è diradata, si vede un panorama mozzafiato verso la valle sottostante. Una vista rovinata dalla cava che, come un’enorme carie, si sta divorando le pendici delle colline alla base del paese.
    Dario è diventato il custode di questo borgo, conserva la memoria storica di ogni pietra, uscio, scalino che incontriamo. Di ogni casa ci racconta dove sono i proprietari, se sono ancora vivi, ogni quanto tornano, ci parla dei progetti costruiti su ciò che resta di un bel centro rurale. Provo a immaginare cosa sia successo quando Dario, nei suoi giri di perlustrazione tra le frazioni più nascoste dell’Aquilano, abbia visto, dal fondo della strada, occhieggiare questa casa dall’intonaco rosso interrotto da una curiosa edicola votiva, dev’essere stato un tuffo al cuore, un vero richiamo che ha la forza e l’ineluttabilità dell’amore. Altrimenti sarebbe difficile spiegarsi perché, dopo infinite difficoltà ed eventi tellurici, sia ancora qui a cercare di riportare la vita in un borgo dimenticato da tutti.

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    Ci racconti com’è nato il progetto EVA e, prima ancora, come nasce il Comitato per la rinascita di Pescomaggiore?

    Partiamo dal Comitato. Quando vengo ad abitare qui arrivo già con delle idee su questo posto. Prima di fare il compromesso per la casa, nel 2006, avevo iniziato a studiare alcuni aspetti per capire se era possibile realizzare alcune idee che mi interessava sperimentare.

     

    Perché proprio Pescomaggiore?

    Perché stavo all’Aquila e, poi, perché incrociava altri pezzi di un discorso più ampio. Sapevo già di non voler vivere in un contesto urbano, bensì in uno rurale che non fosse in via di urbanizzazione, che avesse ancora dei valori paesaggistici, naturalistici e ambientali intatti. Vengo da Pescara e lì ho capito che non mi piace vivere in mezzo al cemento.

     

    Il centro storico dell’Aquila, dove prima vivevi, possedeva già quegli aspetti paesaggistici e sociali che ti interessavano?

    Sì, infatti, per quello bastava L’Aquila ma, se parliamo della dimensione sociale, nascono già dei problemi. Vivendoci all’interno ti accorgi che è una città d’impronta medievale in tutti i sensi: gli aquilani propriamente detti si autodefinivano sulla base della cinta muraria angioina, mentre gli abitanti delle frazioni, per esempio, di Roio, di Paganica, rivendicavano una loro precisa identità locale.

     

    Come sei stato accolto dalla città?

    Probabilmente con curiosità, perché ho fatto il contrario dell’immigrazione classica, ho risalito l’Aterno invece che scenderlo verso il mare. A L’Aquila mi sono trovato subito bene, la cittadina di provincia offriva, in termini di spazi e relazioni, un’alta vivibilità.

     

    Quando parli di alta vivibilità cosa intendi?

    Affacciarsi alla finestra la mattina, o fare due passi da casa, ed essere in un luogo piacevole all’occhio, avere la bellezza intorno…

     

    Da questo punto di vista, noi a Pescara siamo fottuti…

    Penso che i canoni estetici siano molto soggettivi, c’è spazio per tutti. Però, a me piaceva avere uno spazio dotato di un senso di bellezza più immediatamente percepibile. Ci sono spazi urbani in cui la bellezza devi andare proprio a cercarla, se non addirittura inventarla. In altri contesti, penso ai nostri centri storici, è come se si fosse sedimentata col tempo. Continuando a elencare i miei canoni di vivibilità, aggiungerei una socialità che non sia quella del condominio, quella forzatamente densa e litigiosa, e un ritmo di vita meno caotico e frenetico.

    A L’Aquila ho trovato queste qualità e, in più, un territorio in cui mettere a frutto le mie passioni per la storia e lo sviluppo sostenibile applicato ai beni comuni. Pochi sanno che un terzo dell’Abruzzo montano è ancora fatto di proprietà collettive. Qui a Pescomaggiore, per esempio, molte attività agricole erano svolte collettivamente e lo stesso forno in cui si cuoceva il pane, che abbiamo restaurato da poco, era gestito da tutta la comunità. Questo paese rappresentava per me un posto abbastanza piccolo dove poter innescare dinamiche divergenti rispetto a quelle egemoni, dove poter recuperare logiche e pratiche che sono sussistite fino alla metà del ‘900.

    Nel 2007, a 34 anni, mi trovavo a un bivio: scegliere di lasciare L’Aquila, i cui limiti mi erano perfettamente chiari, oppure radicarmi in un luogo che non fosse un semplice tetto sopra la testa. Mi sono detto che o per 15 anni avevo fatto solo sogni, che sarebbero rimasti tali, oppure potevo cercare di metterli in pratica.

     

    A Pescomaggiore hai trovato spazio e supporto per le tue idee?

    Si sono verificate alcune circostanze fortunate, anche se ci sono stati elementi che non avevo minimamente preventivato. A vederla col senno di poi, è stata una valutazione di una superficialità clamorosa…

     

    A noi piacciono gli atti impulsivi e romantici!

    Da questo punto di vista mi è andata bene: dopo due giorni che ero entrato in casa, sono venute a bussare due persone del paese per chiedermi dei consigli come avvocato, questo perché, per presentarmi, avevo scritto una letterina che avevo imbucato nelle cassette delle lettere di tutte le case del paese…

     

    Hai scritto la letterina per presentarti al paese?!?

    Ho scritto come mi chiamavo, l’età, cosa avevo studiato, il perché venivo a vivere a Pescomaggiore, una classica lettera di presentazione…

    Sono venuti perché avevano un problema con la cava che si trova poco sotto il paese e da lì è nata l’idea di creare il Comitato per la rinascita di Pescomaggiore. Dopo un po’ di discussioni sono riuscito a far passare la linea di non contrastare la cava frontalmente, una posizione secondo me perdente, ma di recuperare gli altri valori del paese e del territorio: solo costruendo un’alternativa, potevamo chiedere la chiusura della cava.

     

    Quali idee avete elaborato?

    Nulla di eclatante o di particolarmente innovativo, abbiamo seguito le linee di sviluppo rurale promosse dall’Unione Europea già dalla metà degli anni ’90: agricoltura sostenibile, recupero delle coltivazioni locali per avere più valore possibile sul prodotto agricolo, distribuzione di filiera corta, turismo sostenibile, recupero del centro storico. Niente di nuovo, magari innovativo a L’Aquila, ma non per il resto d’Europa.

    Con alte 2-3 persone che avevo conosciuto all’Aquila ci siamo chiesti se un borgo rurale potesse essere ripopolato rispettandone la natura oppure fosse destinato a diventare un dormitorio al servizio di un contesto urbano vicino.

     

    Il rischio per borghi come questo non è anche l’abbandono?

    Non penso che questi paesi saranno mai totalmente abbandonati, perché sono troppo vicini alla città. Se stessimo sui monti della Laga, a 40 km da Teramo, con strade pessime, sarebbe possibile, qui non è un pericolo imminente.

    Abbiamo cercato un accordo tra vecchi e nuovi abitanti del paese: i terreni e gli spazi inutilizzati del centro sarebbero stati affidati a persone intenzionate a coltivarle e a renderle proficue secondo un progetto di economia sostenibile.

     

    Rispetto alla cava, com’è finita?

    Non è ancora finita, diciamo che è stato il primo mattone di questa alleanza tra le persone che erano rimaste legate al paese e gli altri, a partire da me, che hanno iniziato ad attivarsi intorno al progetto. All’inizio, abbiamo impostato una campagna di comunicazione con comunicati stampa, accesso agli atti, contestazioni agli organi amministrativi, denunce penali, iniziative di informazione al pubblico sui danni ambientali che una cava genera… Al momento del terremoto abbiamo lasciato il tutto in immersione perché dovevamo affrontare un problema pratico: eravamo rimasti senza casa.

     

    Arriviamo al 2009. Quando c’è stato il terremoto eri qui?

    Come residenza sì, stavo finendo di ristrutturare la casa. Era passato un anno dall’acquisto e avevamo rifatto il tetto, risistemato il bagno, rifatti gli impianti, la predisposizione per il riscaldamento, eliminato un tramezzo per avere una cucina che fosse un minimo abitabile, tolto un controsoffitto per avere una stanza più luminosa come sala, e la stavamo imbiancando…

     

    Adesso, è inagibile?

    Sì. Il terremoto è stato ad aprile e fino a ottobre sono rimasto fuori casa, poi sono rientrato a Pescomaggiore. Il primo mese sono stato nella tendopoli della protezione civile, ma ho cercato subito un’altra sistemazione perché non ce la facevo più in quella specie di prigione.

     

    In molti hanno notato questa militarizzazione che ha subito L’Aquila in modi apparentemente immotivati e sproporzionati.

    Era assolutamente immotivato, se non fosse che tutte le scelte fatte in seguito portavano a un sempre maggiore controllo del territorio. La militarizzazione è avvenuta ovunque, ovviamente più forte nelle tendopoli prossime alle zone urbane. Qui a Pescomaggiore si è creata una sorta di bolla poiché la protezione civile ha impiegato un mese prima di arrivare a mettere la tendopoli. Per un mese i compaesani sono stati in una tendopoli autorganizzata e la protezione civile portava solamente le scorte di cibo. In seguito, è arrivata la Croce rossa ma il campo non è mai stato recintato. Altrove i campi sono stati recintati dopo i primi 15 giorni: significa che non entri se non hai i documenti, non esci se non sei del campo, ti chiedono dove vai, non sei libero di muoverti…

     

    A cosa doveva portare questa gestione?

    Porta, innanzitutto, a una mole gigantesca di spesa pubblica fuori controllo. Nei primi sette mesi di emergenza, tra CASE e gestione, hanno speso più di 1 miliardo. Per tutta la ricostruzione dell’Aquila il governo ha stanziato ad aprile 5 miliardi in 30 anni, quindi, una parte importante delle risorse li hanno già spesi in sette mesi in affidamenti diretti della protezione civile.

    Porta a una marea di volontari, 14.000 volontari della protezione civile per 14.000 persone nei campi, un volontario per ogni terremotato. I volontari cucinano, puliscono i bagni, tu terremotato non fai niente, è una precisa scelta di inabilitazione che segue a un trauma devastante come quello del terremoto. Abbiamo scoperto sulla nostra pelle come sia facile schiavizzare mentalmente le persone: nelle tendopoli non ci sono mai state rivolte, neanche discussioni accese, non si potevano fare riunioni, non si poteva distribuire volantini. La protezione civile ha messo su un meraviglioso esperimento sociale consistito nel prendere una città intera e annichilirla.

     

    Voi aquilani avete avvertito questo come “uno” dei problemi?

    Sì, una componente questa cosa l’ha avvertita da subito e fortunatamente ha fatto attività di movimento attraverso precisi piani di comunicazione e atti dimostrativi.

     

    Ti riferisci al movimento 3.32?

    Essenzialmente loro. Dall’altra, detto brutalmente, il Pd in tutta questa cosa è stato praticamente colluso ma, non essendo sostenibile per un partito d’opposizione, ha dato un appoggio indiretto alla mobilitazione di movimento. Ci hanno lasciato dello spazio mediatico, altrimenti come ci finivamo il 5 settembre su rai1 al telegiornale di pranzo? In questa ambivalenza politica c’e stato lo spazio anche per chi contestava dal basso, soprattutto se poi non aveva la possibilità di incidere sulle scelte concrete.

     

    Mi viene in mente l’evento farsesco del G8, voi come l’avete vissuto?

    È stata l’occasione di un ulteriore militarizzazione del territorio: si parte dal recinto del campo – così non vengono a rubare dentro –, al controllare chi viene, fino a ritrovarti le batterie di contraerea sopra le montagne e a non poter circolare per nulla in determinate e consistenti aree del territorio. Poi, per carità, i militari a Pescomaggiore non hanno mica disturbato, i compaesani si sono anche tassati per dedicare una targa alla loro presenza temporanea, è affissa alla fonte.

     

    Fu bellissima la contestazione con la scritta Yes We Camp.

    Quello a mio avviso fu il punto più alto di creatività del movimento. In realtà, abbiamo continuato a campeggiare fino a ottobre, poi, per ragioni metereologiche – la prima settimana di ottobre si rischia la nevicata – le tendopoli sono state dismesse.

     

    Torniamo al discorso di Pescomaggiore. Dopo il sisma come avete deciso di rimodulare i vostri obiettivi?

    Ci siamo ritrovati con la maggior parte delle case, che già prima erano da ristrutturare, dichiarate E, un delirio burocratico inimmaginabile e una popolazione locale ridotta a pochissime unità sparse per il territorio. Le alternative erano abbandonare il progetto, e lasciare campo libero alla cava, oppure inventarsi qualcosa.

     

    Cosa vi siete inventati?

    Ci siamo inventati E.V.A., l’eco villaggio auto costruito, una dimensione del co-housing che supera l’idea di comune anni ’70 e recupera alcuni vantaggi, anche economici, del vivere vicini.

     

    Il villaggio nasce come alternativa al sistema Map o CASE?

    In quel momento era l’unica scelta, l’unica possibilità di rimanere a vivere qui. Fino al 15 settembre la Protezione civile aveva imposto a tutti i residenti del comune i CASE, è stato solo dopo, come risposta alle necessità delle frazioni, che hanno iniziato a portare i map. L’idea di concentrare gli abitanti nei grandi condomini CASE è fuori da qualsiasi logica di un territorio dove, a fronte di 15.000 abitanti nel centro storico (di cui la metà studenti affittuari in nero) e altri 20.000 distribuiti nelle periferie di Pettino e Cansatessa, ci sono 25.000 abitanti, distribuiti su oltre 60 frazioni, abituati a vivere ciascuno dentro casa propria. La verità è che in alcune frazioni hanno localizzato i CASE come interventi di tipo speculativo, per cui un CASE ad Assergi, a due passi dagli impianti della stazione della funivia del Gran Sasso, domani potrà diventare un albergo per i turisti, oppure a Camarda, dove hanno scempiato la collina di fronte al paese all’interno del parco, o a Collebrincioni dove hanno creato un terzo polo abitativo. Inizialmente Berlusconi aveva parlato di una sola newtown, e sembrava uno scempio perché non rispondeva alle tradizioni del territorio, allora ne sono state costruite, nei fatti, ben diciannove. Dove? Di certo non si volevano occupare o espropriare i terreni edificabili o quelli a vincolo decaduto, che potrebbero sempre tornare a essere edificabili e comunque hanno un prezzo d’esproprio più alto, allora li hanno piazzati fuori dal perimetro urbano, in zone agricole, causando un problema enorme con i servizi. Gestire i servizi pubblici in uno dei territori comunali più estesi d’Italia, con una popolazione di scarsi 70.000 abitanti, è un problema per chiunque, tanto più per un comune che già era abbondantemente in rosso perché gestito in maniera inefficiente.

    Adesso per fare qualsiasi cosa a L’Aquila è necessario prendere la macchina. La città è esplosa, i pezzi sono sparsi nel giro di chilometri, l’università è divisa fra tre diversi nuclei industriali. È quanto successo in tante altre città, pensiamo anche a Pescara, solo che lì lo spazio è saturo, qui, tra un centro e l’altro, bisogna attraversare un nulla demenziale.

     

    In pratica, descrivi quanto è avvenuto nell’urbanistica italiana negli ultimi trent’anni, con la differenza che qui è successo nel giro di pochi mesi. Di fronte a scelte strategiche così importanti, la popolazione ha perso la capacità, o anche la volontà, di controllare quanto stava avvenendo?Secondo te, è un modello di delega della gestione dei beni comuni, più da sudditi che da cittadini, diventato imperante?

    Ci sono, sicuramente, motivi psicologici alla delega, però mi sembra, anche in termini pratici, che dipenda da due elementi fondamentali: prima di tutto è una questione di conoscenza, di dati cognitivi a disposizione, e questo per i secoli passati si capisce facilmente, nel senso che l’alfabetizzazione è una cosa relativamente recente nel nostro paese; poi, è un problema di pratica, perché quando le persone conoscono ciò di cui si sta discutendo non sono così disposte a delegare. Quando parliamo di beni comuni, la consuetudine era che le decisioni fossero prese congiuntamente da tutte le famiglie e, nelle votazioni, ogni nucleo esprimeva un voto, per il semplice motivo che demograficamente aveva la stessa composizione.

     

    Ritorniamo ai mesi successivi al sisma quando è necessario costruire delle abitazioni temporanee. L’idea di creare un villaggio nasce subito o si sviluppa in seguito?

    Inizialmente, volevamo rimanere a Pescomaggiore secondo modalità che comunicassero con chiarezza cosa questo posto può, e vuole, diventare in futuro. La risposta a questa esigenza non richiedeva l’eco-villaggio, bastava che ci fossero un consumo di territorio minimo, l’uso di tecnologie eco-sostenibili e la messa in comune di alcuni servizi. L’idea è che, dopo tre anni, queste case rimangano al paese, e siano gestite dal paese, in una logica di ricostruzione opposta a quella dello sviluppo delle attività estrattive. Quando è stato elaborato l’intervento, fra fine aprile e giugno, si pensava che i destinatari fossero gli abitanti di Pescomaggiore, e l’innovazione principale consisteva nel fatto che due anziani vivessero insieme nello stesso trilocale pur non essendo dello stesso nucleo familiare. In corso d’opera è successo che gli anziani del paese hanno fatto scelte diverse e altri abitanti, spaventati dalle complicazioni, si sono tirati indietro, mentre altri terremotati sono arrivati attirati proprio dalla novità del progetto. Si trattava di persone con caratteristiche sociologiche più simili alle mie che a quelle degli abitanti del paese: laureati, precari in cerca di una vita di qualità pur avendo un reddito basso e senza grandi aspettative di fare soldi – penso che ormai, come generazione, questa idea ce la siamo tolta dalla testa tutti quanti –. All’inizio non ci credeva nessuno ma, una volta iniziato il cantiere, il meccanismo è partito. Sono arrivati i volontari, le donazioni, le televisioni, era la conferma che si potesse agire autonomamente, senza delegare tutto alla protezione civile o agli altri. Se guardo alle case realizzate nel villaggio, l’aspetto positivo tangibile è che ci si vive bene, non fa freddo, lo spazio è adeguato, ma quello, forse più importante, è psicologico, l’essersi attivati concretamente per uscire dall’incubo del terremoto.

     

    Cosa è cambiato quando ad abitare nel villaggio sono arrivate nuove forze estranee al luogo?

    Intanto, per me diventava possibile condividere una visione di responsabilità con altre persone che avevano capacità e visioni analoghe e, senza le quali, probabilmente il progetto sarebbe fallito. Poi, è stato necessario pensare a un’associazione di promozione sociale che riunisse i beneficiari delle case, i volontari, i donatori e che dialogasse con gli abitanti di Pescomaggiore. Come si evolverà la cosa non lo sappiamo con precisione, sappiamo solo che risponderà all’esigenza di coniugare l’abitare, il lavoro, la memoria e l’ambiente, e che si orienterà verso un’agricoltura sostenibile. Sono cose vaghissime che prendono forma attraverso un pensiero e una pratica collettivi. Abbiamo iniziato a sperimentare e, dopo due anni, stiamo ancora continuando. Sono tante le abitudini che bisogna superare per andare in questa direzione, siamo, almeno io sicuramente, cresciuti secondo modelli individualisti.

     

    Visto che ormai l’individualismo è così radicato perché guardare alla condivisione?

    Perché l’individualismo è antieconomico. Ti faccio l’esempio dello zafferano: l’anno passato abbiamo sperimentato il lavoro totalmente in comune, è servito a pagare l’investimento in 10 quintali di bulbi, che oggi appartengono all’associazione. Quest’anno abbiamo deciso che ognuno gestirà una parte del lavoro e della produzione in maniera autonoma, ma con la consapevolezza che non sarebbe possibile senza l’associazione e l’azione collettiva. Nessuno ti darebbe i terreni singolarmente, il GAS non comprerebbe da te, o forse sì, ma dovresti fare tutto un lavoro di comunicazione ulteriore.

     

    Sono queste le basi su cui avete fondato la vostra comunità?

    Questo concetto non è corretto perché non siamo una comunità. La comunità esiste già, è quella di Pescomaggiore, non si tratta di fondarne una nuova. Noi abitiamo secondo pratiche e principi che, speriamo un giorno, possano contaminare con intensità diverse tutti gli abitanti del paese, e portare altri a viverci sapendo che queste sono le regole del vivere comune, almeno quelle che vorremmo recuperare. Qui c’è un forte senso del luogo, almeno io lo sento, questa non vuol essere la villetta a schiera ecologica… Per questo rifiuto il termine “comunità”, perché una comunità si crea nell’arco di secoli. Mi sembra che abbia più senso sperimentare un recupero dell’esistente attraverso elementi d’innovazione non solo tecnologica ma soprattutto cognitiva data dalla capacità di comunicare e leggere il contesto. La scolarizzazione di massa dei vantaggi li ha portati, si tratta di capitalizzarli. Invece  di svendersi a 600€ al mese, senza pensione, questa cosa vuol dire cercare di fare sistema in vista di un welfare locale.

     

    Rispetto a questo progetto, avevate in mente esperienze che vi hanno fatto da guida?

    Ho sempre seguito con curiosità il Popolo  degli Elfi. Negli anni ’90 avevo letto un articolo su di loro in una rivista, che si chiamava King, in cui erano descritti come persone che, deliberatamente, rifiutavano la civiltà e vivevano senza luce e gas. Io, non lo farei, cioè magari per una breve fase alla Thoreau, ma non per sempre come fanno loro.

    Continuando con le ascendenze, nel ’96 sono stato in Inghilterra e c’era il movimento dei Travellers. Recuperavano un tipo di vita nomade unita a un forte impegno ambientale. Nel ‘97-98 sono stato in Francia per l’Erasmus e lì ho scoperto che in Provenza molti paesini sono ripopolati da proletariato giovanile che vive facendo le raccolte l’estate e d’inverno di piccoli lavori, o di quello che hanno accumulato durante la stagione. Poi, c’è stata l’esperienza della cooperazione allo sviluppo con lo stage in Marocco, e lì ho colto due elementi interessanti: il primo è che in Marocco è molto diffusa la realtà dei beni comuni, cioè dei pascoli e dei boschi di comunità, il secondo è la presa di coscienza che la cooperazione allo sviluppo non funziona se imposta dall’esterno. Se ti siedi, mangi con loro, lavori con loro, senza pensare di esser lì per insegnare ma per imparare, allora la comunicazione diventa più facile e ci sono più possibilità che il processo funzioni.

     

    Alcune domande da architetti. Come è nata l’idea di costruire con la paglia?

    L’idea della paglia è precedente al terremoto ed era un’idea fissa di Antonio, un ragazzo di Paganica che collabora fin dall’inizio al Comitato. Abbiamo proposto l’idea agli architetti, Paolo Robazza e Fabrizio Savini (BAG – Beyond Architecture Group) che, a loro volta, hanno coinvolto Caleb Murray Burdeau, un esperto che aveva già sperimentato questa tecnologia. La struttura, in legno e tiranti di acciaio, è una collaborazione tra loro e un ingegnere della facoltà di ingegneria che ha avuto voglia di ragionare gratis su questa ricerca.

     

    Come sono stati i rapporti con gli uffici tecnici della Protezione civile, c’è stata collaborazione?

    L’idea era di stabilire una qualche forma di cooperazione. Abbiamo chiesto loro di farci le opere di urbanizzazione, il movimento terra, gli impianti di acqua e luce e fogne, mentre noi avremmo realizzato le strutture. Quando il tecnico ha visto i disegni con i muri così spessi, ci ha chiesto se fossero in cemento armato… Alla nostra risposta, “in paglia”, ha chiuso la planimetria e ci ha proposto dei bellissimi map.

    E le opere di urbanizzazione?

    Le abbiamo fatte da soli, anche se così è costato un po’ di più.

     

    Così impari la prossima volta…

    Ci abbiamo notevolmente guadagnato, altrimenti cosa c’era da rivendersi mediaticamente da questa storia? che avevamo trovato i terreni dove poi piazzare i map della protezione civile? Dove finiva la nostra azione manifesto per la rinascita di Pescomaggiore?

     

    La raccolta di fondi è stata positiva?

    Quando siamo partiti, il costo preventivato era di 150.000€, per tutto, ma era manifestatamente sottostimato perché non avevamo tenuto conto dei costi di urbanizzazione. Inoltre, sono emersi una serie di elementi in corso d’opera come il tirante in acciaio, che comporta un aumento dei costi di costruzione, e i volontari. Non avevamo ben considerato che lavorare con i volontari avrebbe comportato non solo dei costi aggiuntivi per il loro vitto e alloggio, ma soprattutto un periodo di tempo più lungo, vista la loro minore produttività rispetto a un manovale professionista.

    Così, anche se abbiamo ricevuto 150.000 € di donazioni è rimasta una parte di spese che paghiamo direttamente noi abitanti versando una quota mensile.

     

    Arrivano ancora donazioni?

    Il flusso di donazioni, già da maggio 2010, ha iniziato a flettere paurosamente, però ha consentito di coprire la maggior parte dei costi. Ora ci sono ancora 15.000 scoperti, pian pianino li copriremo.

     

    Chiudiamo con le domande classiche. Quando hai bisogno di ispirazione cosa fai?

    Cammino per la campagna qui intorno, oppure dormo.

     

    Consigliaci un sito

    Ne consulto alcuni in maniera sistematica, tipo l’Ansa, www.abruzzo24ore.tv che è quello che cura Filippo, uno dei componenti del Comitato per la rinascita di Pescomaggiore che vive qui nel villaggio; ogni tanto la pagina del Manifesto, poi c’è un centro studi di documentazione per gli usi civici e le proprietà collettive che sta a Trento e ha un suo sito che guardo di tanto in tanto.

     

    Una rivista?

    Niente.

     

    Il libro, o i libri, della tua vita?

    Forse tutti. Il primo che mi ha colpito alle soglie dell’adolescenza è stato “Il lupo nella steppa” di Herman Hesse, poi ho continuato a leggere un po’ tutto dell’autore nel decennio successivo. Oltre ad Hesse mi piace Cortàzar. Mi sono riletto l’Odissea e mi è piaciuta un casino, “Il maestro e margherita”… adesso sto leggendo un libro di Wu Ming 2, una cosa breve, che si chiama “Il sentiero degli dei“, è la descrizione di una camminata sull’Appennino da Bologna a Firenze. Sto anche leggendo un libro che si chiama I bisogni irrinunciabili dei bambini, funzionale al mio recente impegno di padre.

     

    Guardi tv?

    Non ho la tv dal 2003.

     

    Cinema?

    L’ultimo di Sorrentino, This must be the place”, mi è piaciuto, altrimenti, mi piacciono molto Kusturiza, Buñuel, Moretti.

     

    La città in cui vivresti?

    Pescomaggiore.

     

    Musica?

    Non la ascolto molto, più che altro musica popolare, il reggae…

     

    Vedi come esce fuori il fricchettone che è in te!

    Non ho un grosso orecchio musicale, per cui mi piacciono le cose ben ritmate, va bene anche il jazz. Aspetta, come ho fatto a dimenticare De Andrè?!? forse non lo classifico come musica…

     

    Quali sono le qualità che servono per il tuo lavoro di… fondatore di ecovillaggi sull’appennino abruzzese?

    Servono pazienza, sensibilità, empatia, autocritica, perseveranza, e un po’ di visionarietà.

     

    Quali di queste ti riconosci e quali, invece, ti mancano?

    Migliorerei empatia e autocritica, mi riconosco visionarietà e perseveranza.

     

    Cosa ti aspetti che possa diventare questa esperienza nel futuro?

    Mi piacerebbe che diventi un modello di ripopolamento dei borghi appenninici.

     

    Una cosa semplice semplice…

    Mi sembra che sia in atto una tendenza all’espulsione dalle città e dai cicli di riproduzione nelle città. La vivibilità urbana si abbassa sempre di più mentre si alza la voglia di vivere in maniera diversa, cosa testimoniata dalle donazioni e da tutto l’interesse mediatico che abbiamo ricevuto. Ci sono specificità di questo ripopolamento che nascono dalla volontà di rispettare il senso e la memoria dei luoghi.

     

    Invece, una preoccupazione?

    Sono totalmente preso da mia figlia, è a lei che dedico ora tutte le mie attenzioni e preoccupazioni.

     

    Ci fai il nome di amici o conoscenti che secondo te rientrano in questa categoria di Comici creativi guerrieri e che ci vuoi far conoscere?

    Su un filone analogo, abbastanza vicini per una serie di cose, ti direi Mario e Giulietta che vivono a Mulino San Nicola a Bellante, loro fanno i “fricchettoni” full time; poi, farei il nome di Massimo Piunti, un ragazzo che vive a Roio e costruisce le pupazze”, le tipiche sculture di cartapesta che si mettono in piazza con i fuochi d’artificio.

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    EVA Eco Villaggio Autocostruito

    Blog di Pescomaggiore

    EVAPescomaggiore (Facebook)

     

    Le foto che seguono sono di Pippo Marino

    Slideshow su Flickr

     


    31 thoughts on “Eco Villaggio Autocostruito

    1. Il 21 dicembre a Pescomaggiore viene riacceso il forno di paese ed è una vera e propria festa. Se volete conoscere il progetto EVA e i suoi instancabili fautori questa è una buona occasione.

      1. e sa anche cucinare! Penne porcini e zafferano, tutto autoprodotto, molto meglio di un ristorante a 20 stelle.

    2. il 21 di mattina? dalle foto vedo una miniera di semplice creatività sostenibile, il resto (fuori dal villaggio) è pura distruzione del paesaggio.

      1. MI SONO SBAGLIATO: il forno lo accendono il 22 dicembre, giorno di solstizio.
        Per l’ora, se vuoi, mi informo meglio.
        Sai, a parte la creatività sostenibile, e visibile, c’è un progetto più profondo che si interroga sul modo in cui si vive insieme. Non è semplice, soprattutto quando le idee si scontrano con le storie e le esigenze dei singoli.

    3. Infatti l’impegno forte ha avuto ottimi risultati, ricordo il progetto dagli inizi del post-terremoto. Li ammiro! Per l’ora del 22 dic aspetto tuoi aggiornamenti.

    4. e vogliamo parlare della quantità di oggeti NO!design che abbiamo visto a Pescomaggiore… potremmo fare uno special solo su quel posto…
      Bravi Dario e tutta la combriccola EVA!

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