Fabrizio Sannicandro

    Per raggiungere la casa di Fabrizio Sannicandro, Lia è più efficace di un navigatore satellitare. Senza le sue indicazioni sarebbe stato impossibile raggiungere questa casa che, seppure a due minuti dal paese di Bellante, è completamente immersa nella natura. Come architetti rimaniamo colpiti dalla sobria ristrutturazione (si rileggono ancora i due corpi principali del casolare e dell’annessa rimessa), dal linguaggio architettonico che si richiama a un’architettura nordeuropea per la cura dei dettagli e la combinazione dei materiali. Più che una villa è un piccolo borgo in cui i diversi elementi si combinano senza perdere il valore della propria singolarità. Mentre gli spazi dell’abitazione hanno dimensioni e incastri anche sorprendenti (curiosissima la vista che dal basso della sala da pranzo attraversa la scala a chiocciola che porta alle stanze da letto fino ad arrivare al lucernario) lo spazio dell’atelier di Fabrizio si fa ampio e completamente proiettato verso le colline verdi. Fabrizio dev’essere uno che per pensare ha bisogno di molto spazio in cui far muovere le idee, è facile immaginarlo mentre sposta lo sguardo continuamente dagli ulivi distanti al foglio da disegno o alla tavola su cui sta ripassando maniacalmente le sue linee nere.
    Tra una vespa d’annata e strane lampade capellute ci sono i molti lavori a cui Fabrizio ha lavorato o sta lavorando. Queste figure, che sembrano far compagnia silenziosa al lavoro quotidiano, rivelano una fisiognomica comune fatta di linee morbide e occhi stretti come fessure (che poi sembra essere una descrizione sintetica di come appare Fabrizio mentre ci parla).
    La conversazione, iniziata prima intorno al tavolo di pranzo dove Sabrina, la compagna di Fabrizio, ci ha preparato un buonissimo risotto al radicchio, prosegue poi nello studio dove la luce cambia con le ore del giorno. Tra un aneddoto di vita bolognese e la descrizione del sofferto percorso di costruzione della casa, ogni tanto si affacciano e poi escono sornioni un gatto tigrato e un grosso cane nero, quasi a voler ascoltare anche loro i racconti di famiglia.
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    Ci racconti cosa fai?
    Produco immagini. Da sempre, la mia occupazione. Il mio rammarico più grande è spesso quello di non avere il tempo e le possibilità di tradurle in realtà. Mescolo pittura, disegno, illustrazione e grafica. Il disegno è la miccia, l’elemento propulsivo, la congiunzione tra tutte le varie tecniche. Il computer, infine, la macchina, che magicamente assembla, fa le varianti e codifica.

    Abbiamo visto le tue opere all’ultima edizione di Casaperta a Bellante, quanto spazio dai alla pittura nel tuo lavoro?
    Sono cresciuto tra fumetti, pittura, scultura, design, moda… il termine “pittore” non mi appartiene, sono cresciuto in un periodo complesso. Come tanti della mia generazione ho ciucciato dalla cultura Pop, ho sguazzato al suo interno rigettando immagini in tutte le tecniche possibili. Utilizzo i colori a olio, a tempera, i pastelli colorati, le cartucce della stampante, i programmi vettoriali, il polistirolo, il legno… Mi sono diplomato in pittura all’Accademia con il prof. Venturelli, per cui ufficialmente ho il diploma da “pittore”, comunque sì, appena avrò più tempo a disposizione farò solo il “pittore” (mah!).

    La ricerca condotta nella pittura ha poi delle ricadute in quello che fai negli altri ambiti?
    Certo, un esempio sono le sagome che ho realizzato per il Festival Interferenze di Teramo: silhouette in polistirolo bianco che raffiguravano “gli artisti”, i talenti di questa città. Le sagome erano poste su angoli dei “palazzi” della cultura teramana (il teatro comunale, il museo d’arte contemporanea, la porta della Madonna delle Grazie). Nei miei quadri vivono spesso personaggi ritratti nei loro atteggiamenti più tipici e nelle pose più abituali, una sorta di catalogo delle consuetudini collettive. Oggetto d’attenzione di Interferenze erano i tagli dei fondi pubblici alla cultura e i criteri della loro assegnazione.
    Sono nato a Teramo e ho conosciuto tante persone, dotate di grande talento artistico, che rischiano e lottano quotidianamente per poter credere ancora in quello che fanno. Nelle varie occasioni che si presentano, insieme ad alcuni amici (anche attraverso le iniziative di “Casaperta”) si cerca di porre l’attenzione sulla mancanza di spazi aggregativi, sulla produzione artistica dal basso, spontanea, dell’assenza di un assessorato alla cultura degno di questo nome, realmente vicino allo sviluppo culturale di questo territorio, assente da vari, troppi anni, in questa città.

    Nei tuoi lavori si nota, molto prepotente, questa ricerca sul segno, è una tua particolare indagine? e come si lega a queste figure archetipiche?
    “Pop-line”, figure in outline, mi piace chiamarle così, queste sagome in polistirolo ( le sto sviluppando anche in altri materiali), figure-simbolo delle identità collettive. Archetipi, come la famiglia davanti a una TV, gli abitanti dei nostri paesi nelle loro consuetudini, i visitatori presenti ad un vernissage. In tutti questi lavori il segno traccia i contorni, delinea alcuni tipi universali. Mi piace citare a proposito Carlo Buzzi: “Uno come tanti, nessuno come tutti”.

    È la grafica, e lo studio e importanza dell’outline, che ha influenzato la tua ricerca artistica?
    Non so mai da dove arrivino le influenze. La multidipliscinarietà, la commistione di livelli tecnici e mezzi espressivi, è per me una consuetudine, un processo che deriva dalla mia formazione.

    Quali studi hai fatto?
    Liceo artistico, a Teramo, l’Accademia di Belle arti a Bologna, e, contemporaneamente, la scuola di fumetto “Zio Feininger” (prima edizione, mitica) negli anni ’80. Un luogo e un periodo molto significativo per la cultura giovanile in Italia dove, in maniera trasversale, scorreva una vena di innovazione ed entusiasmo che generava linguaggi inediti. Sperimentare era la priorità. Frequentavo molto l’Accademia, e disegnavo molto, era anche il periodo in cui collaboravo con varie riviste di cultura e informazione come “il Manifesto”, il “Gambero Rosso”,”Frigidaire” etc.. A Bologna erano presenti numerosi personaggi di spicco, tra cui il gruppo di Valvoline con Lorenzo Mattotti, Andrea Pazienza, Marcello Jori, con cui ho collaborato su alcuni progetti. Era un periodo in cui avvenivano strani “travasi”, e gente che ha iniziato a fare fumetti finiva per disegnare poltrone o campagne pubblicitarie. I fumetti di Mattotti, per esempio, erano un’esplosione di magica poesia visiva.. difficile da definire semplicemente “fumetto”, per cui da lì in poi tutto è cambiato. Oggi si parla di graphic novel che, in altri paesi, sono venduti anche più dei libri di narrativa… ma non in Italia.

    Era l’acme di un periodo poi chiusosi con gli anni ’90?
    Era un momento molto produttivo, c’erano i postumi del punk e della generazione degli anni ’70, e la voglia di ampliare i confini dei vari generi espressivi. Se oggi mi muovo agevolmente tra ambiti diversi (trovando una completezza all’interno di questi) è perché ho un approccio culturale figlio di quel periodo.

    Si può dire che il tratto comune a tutte queste tue esperienze sia stato il disegno?
    Direi di sì, anzi, forse tutto quello che faccio, è fondamentalmente una scusa per disegnare.

    Quando è nata questa insana passione?
    A 11-12 anni, grazie a Eddy, un genio. Rimasi folgorato, mi fece conoscere un mondo nuovo, fantastico, che non conoscevo. Passavo intere giornate a copiare Alan Ford, il Numero 1, Bob Rock, e poi Manara, Pazienza… li adoravo. Da lì, si sono aggiunti illustratori, pittori, artisti come Mattotti, Moebius, Bilal, Matta, Hopper, Pazienza, Jean Michel Basquiat, Keith Haring, Schifano, Warhol ecc..

    Tra i disegni che hai appeso in casa, ce n’è uno che hai fatto a 10 anni, in cui hai rappresentato a matita Bologna. Ci dicevi che già allora volevi andare a vivere in questa città, in pratica tutta la tua vita seguente è stato il tentativo di realizzare quel disegno?
    Una domenica mattina, da bambino, ero nella Fiat 124 beige con mia madre e mio padre, ricordo con chiarezza che li avvisai, in maniera chiara, che da grande, sarei andato a vivere a Bologna. Una città dove sono poi stato per tanti anni e dove sono nati due dei miei tre figli, ma che non sono riuscito ad amare.

    È uno dei motivi per cui sei tornato in Abruzzo?
    Avevo la necessità di realizzare delle cose, di essere più vicino alla natura (scusate il luogo comune), di avere spazi più grandi per me e la mia famiglia.

    Per il lavoro come hai fatto?
    Ad oggi continuo a collaborare con gli stessi clienti di prima, aziende e studi sparsi per l’Italia.

    Lavori molto via internet?
    È fondamentale, in questo periodo collaboro con realtà sparse un po’ in giro: Bergamo, Milano, Chiasso,Vicenza…

    Nel lavoro di freelance quanto contano le pubbliche relazioni?
    Credo sia importante essere leali, efficaci e puntuali, se poi riesci anche a essere brillante, tanto di guadagnato, in questo non sono un fuoriclasse…
    Cerco di essere leale, efficace e puntuale…appunto!

    Raccontaci com’è nata questa casa.
    La cosa più difficile è stata trovare il posto, ma, quando siamo arrivati qui, non abbiamo avuto alcun dubbio, Sabrina disse: “This must be the place”, scherzi a parte, il luogo ci colpì molto ad entrambi.
    Il resto è stato una “normale” ristrutturazione, metto le virgolette perché, in realtà, è stato un lavoro durato tre anni, di cui due di cantiere e uno di progettazione, in cui con Andrea (Cavarocchi, l’architetto mio grandissimo amico) ci siamo scambiati continuamente idee e disegni.

    Lo sai che tu saresti l’incubo per qualsiasi architetto?
    Si lo so. Lo sono stato per Andrea ma, devo dire anche lui per me…
    Come dice lui, di una casa c’è una madre e un padre, io ero il padre e lui era la madre, o il contrario, ora non so… comunque, è stata un’esperienza che abbiamo vissuto con grande passione: io stavo costruendo la mia casa e lui stava disegnando la casa per un amico (credo).
    Un architetto su un progetto investe tutta la propria vita di professionista con tutte le proprie convinzioni e idee, un proprietario, quando costruisce la propria casa, vi riversa tutte le proprie aspirazioni private. Questo dialogo spesso non avviene con facilità, per cui si scontrano idee e passioni, visioni dell’architettura e bisogni dell’abitare.

    In questo scontro/incontro, su cosa non hai ceduto?
    Questa vetrata dello studio. Volevo una vista completamente libera sulle colline, Andrea, invece, spingeva per una riduzione. Siamo andati avanti per un po’ così per poi arrivare al risultato attuale in cui lui disegnò questa bellissima finestrona sghemba.

    Dopo tutto questo, siete rimasti amici?
    Ci vuole ben altro per ammaccare la nostra amicizia, però, un bel po’ di scazzi, quelli sì ci sono stati…

    Questa tua cura per la casa denota un’attenzione all’architettura che è alla base del progetto Il corbezzolo. A me è piaciuta molto la rivista (vedi il post), soprattutto perché affronta problemi complessi, come quelli della trasformazione della città, con atteggiamento al tempo stesso ironico e preparato. In quanti avete lavorato all’ultimo numero che si intitola Chimera?
    Chimera? Corbezzolo? Da quello che so l’identità dei redattori è assolutamente segreta: Agenore Crutamarro, Cosimo Piovasco di Rondò, Franco Paperamuta, Remo Collasse e gli altri collaboratori, sono personaggi loschi e preoccupanti… attenti a loro.
    Quando sono tornato ho trovato una città con una grande propensione all’attivismo, quasi una smania di dover crescere tutta di colpo, con un’amministrazione che ha interpretato i ritardi e la lentezza storica della politica con l’attivismo senza scrupoli. Nel giro di poco tempo abbiamo visto la realizzazione di stadio e centro commerciale, senza reali necessità, arredi urbani di dubbio gusto (vedi i led posti a filo strada sul vecchio ponte Vezzola) ma soprattutto importanti piani futuri sulla trasformazione della città dove siamo nati.
    L’obiettivo non è certo quello di arrivare agli appalti ma di suggerire, civilmente, attraverso un organo pubblico, ipotesi che rispettino maggiormente la caratteristiche sociali di questo luogo, nel segno di una continuità storica. Ci sono in atto progetti che cambieranno radicalmente il volto futuro della città, occorre, ora più che mai, essere molto presenti.
    Con Chimera abbiamo cercato di informare il maggior numero di teramani su quali siano le scelte operate dall’amministrazione, nell’area dietro la Chiesa della Madonna delle Grazie, per esempio, e vi assicuro che tanti cittadini non ne sono a conoscenza. Su quest’area abbiamo suggerito un’ipotesi che mira alla conservazione degli attuali capannoni attraverso un’intervento “leggero” e una conversione d’uso, salvaguardando gli aspetti storici e paesaggistici della zona.

    Com’è stato recepito questo progetto dalla popolazione e dall’amministrazione?
    Dagli amministratori, neanche un cenno. Dai cittadini, un grande consenso.

    Poiché siete al di fuori di logiche partitiche ed economiche, il rischio non è quello di essere ignorati e schiacciati sotto il peso dell’indifferenza ufficiale?
    Non rientrando sotto nessuna bandiera politica o gruppo di potere, in qualche modo le nostre idee non sembrano traducibili in realtà. Sono proposte per la collettività, stimoliamo un confronto, è l’unico interesse da parte nostra.

    E gli architetti, l’ordine, come hanno reagito?
    Apparentemente bene, la presentazione del primo numero è stata ospitata proprio dall’ordine degli architetti, ma, a parte questo, nada.

    Tornando alle nostre domande classiche, qual è il primo lavoro in cui sei stato pagato?
    Avevo 15 anni e un’agenzia pubblicitaria di Teramo mi aveva commissionato un’illustrazione per un supermercato, realizzata con le matite colorate.

    Invece, la cosa di cui sei più orgoglioso?
    Ce ne sono tante, direi una copertina per “il Manifesto”, la prima pagina di un’edizione domenicale.

    Quando hai bisogno di ispirazione cosa fai?
    Cerco di stare da solo con un po’ di tempo a disposizione. Senza avere niente da fare. Il vero lusso.

    A proposito, come organizzi la tua giornata lavorativa?
    La mattina è dedicata ai progetti, il pomeriggio all’organizzazione.

    Consigliaci un sito web.
    www.legadelcane.org

    Riviste?
    Il corbezzolo, ovviamente, poi, Wired, Frigidaire, Flash Art, Domus.

    Libri?
    Diversi, sparsi e a sprazzi: De Luca, Guccini, Wilde…Vado molto a momenti.

    Programmi tv?
    Basket e informazione.

    Cinema?
    Fellini, uno per tutti.

    Città in cui vivresti?
    Non c’è.

    Musica?
    Paolo Conte, Rolling Stones, Cavarocchi e Wide Hips 69.

    Quali sono le qualità che servono per il tuo lavoro?
    Passione, tempo e autodisciplina.

    Quali sono le qualità che ti riconosci e quali, invece, senti che ti mancano?
    Sono uno scarso promoter ma un vero sgobbone.

    Cosa ti piacerebbe fare in futuro?
    Forse un gruppo di artisti indipendenti, una sorta di galleria pubblica dove valorizzare i talenti veri, con una grande autonomia (una mia fissa), in grado di rappresentarsi e di promuovere il proprio lavoro al di fuori di logiche politiche o di potere.

    Invece, una preoccupazione?
    Non poter fare questo lavoro.

    Ci fai i nomi di amici o persone che vorresti far conoscere?
    Andrea Cavarocchi, l’architetto di questa casa; Lia Cavo; Silvia Settepanella; Sergio Florà; Marco Rodomonti; Francesca Casolani; Mara Di Giammatteo; Giampiero Marcocci e Pino Monaco per la fotografia; Giustino Di Gregorio; Gianluca Bernardini; Fausto Cheng, ma non ha certo bisogno di essere scoperto; Marino Melarangelo; Berardo di Bartolomeo; Carlo Mancini; Leonardo Malagrida; Massimo Paganini; Daniele Paoletti, artigiano-artista del ferro e tanti altri …

    Links:
    www.fabriziosannicandro.it
    www.moplanstudio.com
    f.sannicandro@alice.it

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    Le foto sono di Pippo Marino.

    slideshow su flickr

    Le immagini che seguono sono alcune opere di Fabrizio Sannicandro.


    13 thoughts on “Fabrizio Sannicandro

      1. sono d’accordo, le case firmate dagli architetti sono buone per cataloghi e riviste, quelle vere sono imperfette e piene di compromessi, un po’ come la vita.

      2. stavo pensando che sarà interessante andare a intervistare Andrea Caverocchi, l’architetto di questa casa, per scoprire lui come ha vissuto questo progetto, e magari, vedere anche l’evoluzione dell’idea attraverso le diverse versioni.

          1. a me piacerebbe vedere com’era la prima versione proposta per capire, attraverso le differenze tra questa e la realizzazione, quale sia la distanza tra architetto e committente. Chissà se ha conservato anche gli schizzi iniziali (tra l’altro l’arch. Caverocchi fa degli schizzi bellissimi, da sembrare tavole di un fumetto)

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